Araldica Eclesiastica
di Giorgio Aldrighetti
LO STEMMA DI BENEDETTO XVI
L’Osservatore Romano di giovedì 28 aprile 2005, a pagina 6, porta un ampio articolo di mons. Andrea Cordero Lanza di Montezemolo, arcivescovo titolare di Tuscania, già nunzio apostolico, sullo stemma di Papa Benedetto XVI.
Osservando lo stemma riportato in bianco e nero e leggendo, poi, l’articolo, mi sono reso conto che ci troviamo in presenza di una svolta epocale nell’araldica ecclesiastica, in quanto la tiara non timbra più lo scudo papale. Ma andiamo con ordine.
Lo scudo di Benedetto XVI che era, in precedenza, “inquartato”, contiene delle figure araldiche che egli aveva già nel suo stemma di arcivescovo di Monaco e Frisinga (1977-1982), e poi da cardinale prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede (1982-2005).
Tali figure, caricate ora in un “cappato abbassato”, sono la conchiglia di san Giacomo, il moro di Frisinga e l’orso di Corbiniano, tutti elementi che richiamano le antiche tradizioni della sua patria bavarese e parte del suo vissuto biografico.
La conchiglia, si riferisce anzitutto a una famosa leggenda che riguarda sant’Agostino. Si racconta, infatti, che mentre questi passeggiava lungo la riva del mare, meditando sull’imperscrutabile mistero della Trinità di Dio, incontrò un fanciullo che con una conchiglia stava versando l’acqua del mare in una piccola buca. A quel punto il santo, sorridendo davanti all’impossibilità di un tale tentativo, si sentì dire dal fanciullo: tanto poco questa buca può contenere l’acqua del mare, quanto poco la tua ragione può afferrare il mistero di Dio.
Allo stesso tempo il simbolo si ricollega alla personalità di Joseph Ratzinger come teologo e all’inizio della sua carriera scientifica. Nel 1953 egli conseguì il dottorato in teologia sotto la guida del professor Gottlieb Soehngen presso l’Università di Monaco con una dissertazione su “Popolo e Casa di Dio nella Dottrina della Chiesa di sant’Agostino”.
La conchiglia, inoltre, è da secoli il simbolo primario del pellegrino e Benedetto XVI desidera calcare le orme di Giovanni Paolo II, che fu grande pellegrino in ogni parte del mondo.
Come “conchiglia del pellegrino”, fa anche riferimento ad un concetto centrale del Concilio Vaticano II, cioè il “popolo di Dio pellegrinante”, di cui l’allora arcivescovo Ratzinger, e ora Benedetto XVI, si riconosce pastore. Come arcivescovo egli aveva inserito intenzionalmente questo simbolo nel suo stemma anche come “conchiglia di san Giacomo”, simbolo dei pellegrini di Compostella.
La conchiglia è anche il simbolo caricato nello stemma dell’antico “Convento degli Scozzesi” (“Schottenkloster”) a Ratisbona, dove ora si trova il seminario diocesano. In questo modo essa ricorda anche una tappa della vita del Papa e la sua attività come docente di teologia.
Dal 1969 fino alla sua nomina ad arcivescovo di Monaco e Frisinga, egli, infatti, insegnò Dogmatica e Storia dei Dogmi presso l’Università di Ratisbona.
L’altra figura è il “moro di Frisinga”, “Caput Aethiopum” (la testa di un etiope): la testa di moro coronata caricava lo stemma dell’antica Diocesi-principato di Frisinga nel 1316 ai tempi del vescovo Corrado III, e successivamente ripresa da tutti gli arcivescovi di Monaco e Frisinga, a partire dal 1817 anno del “Concordato Bavarese”, che segna l’atto di nascita della Arcidiocesi. Vi è infine l’orso con il basto, il cosiddetto “orso di Corbiniano”.
Esso si riferisce a una leggenda relativa al vescovo Corbiniano, giunto da Arpajon, nei pressi di Chartres, intorno al 724 per annunciare il Vangelo nell’antica Baviera, il quale viene venerato come padre spirituale e patrono dell’Arcidiocesi.
In particolare di lui si racconta una leggenda legata al suo secondo viaggio verso Roma, allorché un orso attaccò e divorò la sua bestia da soma. Si racconta che il Santo comandò allora alla belva di portare fino a Roma il suo bagaglio, prima di lasciarlo libero una volta giunto a destinazione.
Una nota dell’Arcidiocesi di Monaco e Frisinga, diffusa in questi giorni, così spiega: “Il significato è chiaro. Il cristianesimo ammansì e addomesticò il selvaggio paganesimo e pose così nell’antica Baviera i fondamenti di una grande cultura”.
L’orso di Corbiniano, come ha affermato lo stesso Ratzinger, richiama anche una delle meditazioni sui Salmi di sant’Agostino (354-430), per la precisione quella ai versetti 22 e 23 del salmo 72 (73), in cui Agostino vedeva espressi “il peso e la speranza della sua vita”, così come “il carico del suo servizio episcopale”: “Un animale da tiro sono davanti a te, per te, e proprio così io sono vicino a te”. L’ orso con il carico, che sostituì il cavallo, o più probabilmente il mulo di san Corbiniano, divenendo – contro la sua volontà – il suo animale da soma, non era e non è un’immagine di quel che deve essere e di quel che sono? “Sono divenuto per te come una bestia da soma e proprio così io sono in tutto e per sempre vicino a te”, scriveva il cardinal Ratzinger.
Per la blasonatura, mons. Andrea Cordero Lanza di Montezemolo, sempre nell’articolo de L’Osservatore Romano, così recita: “Lo scudo dello stemma papale può quindi essere descritto (“blasonato”) secondo il linguaggio araldico nel seguente modo: Di rosso, cappato di oro, alla conchiglia dello stesso; la cappa destra, alla testa di moro al naturale, coronata e collarinata di rosso; la cappa sinistra, all’orso al naturale, lampassato e caricato di un fardello di rosso, cinghiato di nero”.
A tal riguardo mi sia permesso evidenziare che nel disegno, in bianco e nero, dello stemma di Benedetto XVI, che figura ne L’Osservatore Romano, di giovedì 28 aprile, manca, tra l’altro l’indicazioni degli smalti, ad esclusione del di rosso (le fitte linee verticali) e del d’argento (che non porta alcun segno); il “cappato”, poi, è abbassato in quanto la cappa scende oltre la metà dei due lati dello scudo; per la conchiglia bisogna precisare che è quella di S. Giacomo; non trovo corretto, ancora, descrivere con “cappa destra” e “cappa sinistra”; per la testa di moro, mons. Andrea Cordero Lanza di Montezemolo, sempre nel saggio, scrive testualmente: “testa di moro al naturale (ovvero di colore bruno)”; mi sia, invece, consentito affermare che, in araldica, le teste di moro vanno, naturalmente, smaltate di nero.
Sempre mons. Cordero Lanza di Montezemolo omette, poi, nella blasonatura, che la corona risulta “all’antica, a sei punte visibili” e la presenza di un anello nell’orecchio della testa del moro. L’orso passante, ancora, è nella positura in banda e nello scudo non figura cinghiato.
Per il lampassato di rosso, ricordo che non figura il simbolo di tale smalto nel disegno, in bianco e nero, dello scudo, come, d’altro canto, la conchiglia non porta il tratteggio di oro, bensì d’argento; lo stesso dicasi per i campi…
Mons. Andrea Cordero Lanza di Montezemolo, riporta, infine, nel suo saggio, solo la blasonatura dello scudo e non degli ornamenti esteriori.
Il motto di Benedetto XVI rimane: «Cooperatores Veritatis», ma non compare nello stemma papale, secondo la comune tradizione degli stemmi dei Romani Pontefici.
Alla fine della prima decade di maggio, sempre del 2005, poi, è comparso lo stemma, con gli smalti a colori, nel sito ufficiale della Santa Sede http://vatican.va e, di conseguenza, per la prima volta, ho potuto vedere lo stemma “colorato”.
Per tale arme propongo la seguente blasonatura: “Mantellato rialzato: nel 1°, di rosso, alla conchiglia di S. Giacomo, d’oro; nel 2°, d’oro, alla testa di moro al naturale, coronata all’antica di dieci punte (sei visibili), collarinata, il tutto di rosso, con l’orecchio anellato d’oro; nel 3°, d’oro, all’orso passante, al naturale, di bruno, posto in banda, lampassato e caricato di un fardello, il tutto di rosso, con il fardello alla croce di sant’Andrea di nero.
Lo scudo è accollato dalle chiavi pontificie, una d’oro e l’altra d’argento, decussate, addossate, gli ingegni, traforati a forma di croce, in alto, rivolti a destra e a sinistra, e legate da un cordone di rosso, terminante, d’ambo le parti, con una nappa dello stesso. Lo scudo è timbrato dalla mitra d’argento, ornata da un montante e da tre traverse d’oro, la prima al capo, l’ultima, movente dalla punta; dalla mitra pendono due infule svolazzanti di rosso e frangiate d’oro, caricate ciascuna da una crocetta greca, dell’ultimo; lo scudo è accollato in punta dal pallio d’argento, frangiato di nero, a tre croci greche, patenti, di rosso”.
Come si vede, tra gli ornamenti esteriori dello scudo del Romano Pontefice, compaiono, novità assoluta, la mitra ed il pallio, mentre figurano le chiavi e scompare la tiara.
Siamo in presenza, quindi, di una svolta epocale nell’araldica ecclesiastica, in quanto la tiara ha sempre timbrato lo scudo papale, fin dagli albori dell’araldica.
Nel mentre convengo che dal pontificato di Paolo VI, la tiara non è stata più usata come copricapo, sostituita dalla mitra, rappresento, però, il vivo rammarico dello sparuto numero di araldisti, nel veder scomparire per sempre quello che è stato il più insigne fra gli ornamenti esteriori araldici ecclesiastici.
Ma nella vita terrena, ovviamente, nulla è inamovibile.