L’OPUSCOLO
Sergio Ravagnan
errori/orrori della guerra
L’AFFONDAMENTO
DEL “GIUDECCA”
13 ottobre 1944
Come l’eccidio della fam. Baldin
e di Narciso Mantovan,
e la crudele rappresaglia
dei “Sette Martiri”
rappresentano il simbolo
della ferocia nazifascista
e della resistenza popolare
durante il periodo oscuro
dell’occupazione tedesca,
così per la gente di Chioggia,
di Pellestrina e di Venezia,
il tragico affondamento
del piroscafo “Giudecca”,
avvenuto il 13 ottobre 1944,
continua ad essere un forte monito
contro errori ed errori della guerra.
Questa pubblicazione è stata realizzata in occasione della intitolazione del Piazzale antistante l’approdo ACTV di Pellestrina e della Fondamenta dell’Isola Saloni a Chioggia Domenica 15 ottobre 2000
Suscita stupore e tristezza l’indagine ricorrente, secondo i cui risultati i più giovani tra i concittadini ignorano fatti accaduti solo pochi decenni orsono. Fatti che hanno segnato la storia d’Italia e d’Europa, ma anche fatti che sono stati vissuti ‑ in alcuni loro momenti ‑ direttamente “sulla propria pelle” da molti di coloro che dei giovani di cui dicevo sono i nonni se non i genitori, persone cioè con cui si ha una giornaliera frequentazione e dalle quali si dovrebbe attingere la prima educazione.
Invece, proprio perché oggi sì può guardare a quei fatti con distacco, e con maggiore obiettività, proprio perché li si può riesaminare alla luce di probante documentazione, e proprio perché non sì può interpretare il presente e progettare il futuro senza conoscerli, è imprescindibile ricordarli e meditare su di essi.
Ecco: ricordare (vale a dire: ri‑mettere nel cuore) è l’impegno che ci muove, è il dovere che avvertiamo nei confronti, in special modo, ripeto, dei più giovani.
Partecipando alla commemorazione del tragico affondamento della Motonave “Giudecca” riflettano sugli orrori della guerra, sulle vittime innocenti, sui lutti che simile barbarie produce e sappiano trarne insegnamento. Sarà questo non soltanto il modo giusto per rendere omaggio ai poveri morti di 56 anni fa, ma anche la spinta più forte per tendere davvero alla pace e ripudiare la violenza.
Venezia, settembre 2000 Paolo Costa Sindaco di Venezia
Ci sono fatti della nostra storia, anche di quella meno lontana, che non possono essere rimossi o dimenticati. Anzi è necessario richiamarli alla memoria e mantenerli vivi anche per la presente e le future generazioni.
Perché, al di là di ogni forma di revisionismo di moda, più o meno strumentale, possano continuare ad esserci di monito, per quello che hanno significato allora e per quello che possono ancora rappresentare.
Non è mai cosa superflua riflettere sulle atrocità della guerra, che uccide, distrugge, spesso anche oltre ogni logica e regola.
La tragedia dell’affondamento della motonave Giudecca, che in modo incomprensibile seminò la morte di tanti civili innocenti, fu uno degli eventi dell’ultimo conflitto mondiale che più impressionò l’opinione pubblica nazionale.
Sconvolse anche coloro che volevano fermamente la liberazione della nazione dall’occupazione degli invasori tedeschi; che allora s’interrogarono se era proprio necessario dover sostenere un così caro prezzo per raggiungerla.
La nostra comunità in quell’occasione più di tutte pagò in termini di vittime innocenti. E per questo ha voluto fissare il ricordo di questo doloroso momento della sua vita civile, celebrando questo anniversario in modo più incisivo. Con l’intitolazione delle fondamenta dell’Isola Saloni sul canal Lombardo. E promuovendo una prima ricostruzione storica dei fatti, da proporre alla conoscenza e alla riflessione dell’intera città e soprattutto dei nostri giovani e ragazzi.
Chioggia, settembre 2000 Fortunato Guarnieri Sindaco di Chioggia
Venerdì 13 ottobre 1944. È una bella giornata di sole. Di quelle giornate limpide e calde, che paiono “regalate” dall’estate, prima del monotono grigiore dell’autunno. Ma basta un attimo a guastare l’incanto alla gente tornata all’aperto.
Improvviso, alle 10.30, torna il sibilo straziante e lugubre delle sirene, che ormai da mesi fanno sussultare gli animi dal terrore della morte. Tutti si affrettano a recuperare i propri cari, per rientrare a casa o nei rifugi, per mettersi al sicuro. È un gesto ormai consueto. Forse anche inutile, tale è l’impotenza, la fragilità di fronte alla forza sterminatrice dei bombardamenti.
Fortunatamente anche questa volta il rombo minaccioso dei cacciabombardieri si allontana lasciando solo paura. Ma si attende ancora un’ora prima di ritornare in strada. Sono ormai 18 giorni che gli allarmi non si concludono tragicamente. Da quel 25 settembre, quando l’incursione aerea aveva lasciato lutti e rovine proprio sulla piazza, nella zona di Vigo. Anche gli allarmi possono diventare routine. E poi la vita deve continuare, in questa guerra che pare non finire mai.
Questa mattina, per ragioni di sicurezza, ha rinunciato alla sua corsa delle 10.30 il piroscafo “Giudecca” dell’Acnil, che da Vigo fa linea diretta tra Chioggia e Venezia. Non rinuncia però a quella successiva delle 12.30. Anzi imbarca anche più passeggeri del solito. Anche molti di quelli prima bloccati dall’allarme. Quanti? Difficile dirlo, qualcuno parla di quattrocento, sono forse di meno: senz’altro oltre duecento.
Sono persone di Chioggia la maggior parte, circa un centinaio, e di Sottomarina, di Venezia e di altri centri del litorale di Pellestrina, ma anche di altri paesi della campagna. Gente che viaggia per sbrigare nel capoluogo qualche pratica o per andar a far visita a parenti, a familiari ricoverati negli ospedali o nei sanatori, ma anche a portare viveri e il cambio della biancheria ai ragazzi dell’orfanotrofio “Maris Stella”. Ciascuno nasconde una storia di povertà e dolore, aggravata dagli effetti della guerra. Tra loro anche qualche militare italiano (c’è un caporale della contraerea) e una dozzina di tedeschi, secondo la testimonianza di un sopravvissuto. Qualcuno addirittura deve correre e fare il salto per potersi imbarcare nella motonave ad ormeggi già sciolti.
* * *
Si naviga tranquilli per un quarto d’ora. La prima fermata è al pontile di Caroman, oltre il porto di Chioggia, dove salgono altri passeggeri. Poi improvviso un rombo di motori dal cielo. Sono tre caccia dell’aviazione angloamericana, che volano a bassa quota proprio in laguna. Frastuono e sagome che sovrastano sempre più chiaramente sopra il battello. Il pedinamento persiste minaccioso per una decina di minuti, il tempo di raggiungere l’abitato di Pellestrina.
Sono momenti di grande tensione. Si racconta dell’intenzione del comandante di accostare a riva per scongiurare pericoli al convoglio. Tempestivamente bloccato, però, armi in pugno da un sergente tedesco.
Una virata improvvisa, radente non lascia il tempo a chi sta sulla plancia di cercare un riparo. Raffiche di mitraglia a ripetizione partono all’impazzata dai velivoli in picchiata. Poi le bombe sganciate dall’alto, che trasformano in pochi minuti il piroscafo in un girone infernale. È uno spietato tiro al bersaglio. Tutt’intorno si sollevano alte e voluminose colonne d’acqua ben visibili fino a Chioggia. E che trasformano le tranquille acque della laguna in un mare in tempesta. Il piroscafo procede per forza d’inerzia dal cimitero fino al cospetto della chiesa. Sono tre le bombe che colgono l’obiettivo. Una prima bomba asporta nettamente la cabina di comando, scaraventando in acqua il timoniere, e immobilizza il natante sul basso fondale. Una seconda colpisce la prua sul lato di sinistra. La terza distrugge totalmente il locale macchine. Il piroscafo inclina e inesorabilmente affonda.
La violenza dell’esplosione è terribile: gli alberi e il timone saltano in aria come frecce: verranno poi recuperati in una barena ad oltre una trentina di metri. Le schegge o i proiettili coinvolgono anche l’abitato di Ognissanti, crivellando dentro e fuori perfino la chiesa e le case che si affacciano alla riva.
Inenarrabili le scene di panico, le grida di dolore dei corpi straziati e mutilati, i lamenti degli agonizzanti imprigionati tra le lamiere e i rottami. Drammatico il fuggi-fuggi di quanti dalle terrazze cercano rifugio sotto coperta. Si crea una ressa confusa di corpi schiacciati con quelli che con altrettanta disperazione cercano al contrario di uscire dalle cabine della stiva, che sta imbarcando acqua, rendendola una trappola mortale, un’unica grande bara.
L’acqua che sale dallo scafo sventrato si colora di rosso e copre inesorabilmente i morti e i feriti che non possono muoversi. Solo pochi riescono miracolosamente ad uscirne vivi. È il caso fortunoso di una ragazza chioggiotta di 14 anni, Valeria Pagan, chiamata Rita, colpita dalle schegge al volto mentre si trovava nel lato destro della stiva sotto prua. Era alla sua prima uscita e in compagnia della cugina Elsa Lanza stava andando dagli zii a Venezia, per alleggerire per qualche giorno il peso di una famiglia che contava altri sei orfani del padre, morto in guerra alcuni anni prima. Ha gli occhi pieni di sangue e alla cieca cerca di aggrapparsi a qualcosa, a qualcuno. Afferra un braccio. Orrore: è un arto staccato. Non sa nuotare. Il dolore e la paura la fanno svenire. Ma non affonda. Sarà il vestito nuovo indossato per quella uscita speciale a gonfiarsi come una camera d’aria e a mantenerla a galla priva di sensi fino all’arrivo dei soccorritori.
C’è anche un prete tra gli sventurati che soccombono, don Giuseppe Natale Vianello, nativo di Pellestrina, che fa il cappellano a Sottomarina. Doveva celebrare la funzione di suffragio nel trigesimo della morte del fratello. Si racconta che prima di spirare abbia impartito a tutti l’assoluzione. Aveva cercato riparo sottocoperta chiamando invano con sé la superiora delle suore dell’ospedale, che riuscirà a scampare alla malasorte aggrappandosi ad una bricola. Accanto a lui c’è anche un chierico ventenne della parrocchia di San Giacomo, Sergio Ballarin, che stava andando a far visita al fratello Emilio, ospitato nell’istituto “Maris Stella”.
Chi può si lancia in acqua. Si cerca di aggrapparsi ai bordi del battello e ad altri relitti di legno galleggianti. Qualcuno, come il bigliettaio Giovanni Vitturi di Venezia si trova tra le mani un salvagente. C’è addirittura chi, come il giovanotto Mario Voltolina, 27 anni, pur colpito da due schegge alla schiena e una alla caviglia, riesce a portare in salvo un bambino spaurito che strilla, finitogli tra le braccia, non si sa come. Ma non tutti hanno le forze di raggiungere la riva a nuoto in quel trambusto. Come l’eroica giovane mamma Elva Voltolina, che pur stremata dalle ferite, lotta nell’acqua per mettere in salvo il suo bambino, Agostino e poi spira. È solo un piccolissimo anche se significativo campionario di storie che compongono quell’incomparabile dramma umano.
Anche una quarta bomba va a segno: situazione meno nota. Colpisce una barca da pesca, che si trova nelle vicinanze del piroscafo. Quasi una pietosa appendice in questa immane tragedia. C’è dentro un’intera famiglia, dei Nordio, che abitano al civico 36 di calle Padovani a Chioggia. Padre, madre e cinque figli tutti molto giovani. Assieme al marito Angelo c’è anche la moglie Teresa Bellemo che ha portato con sé anche i figli più piccoli, proprio perché non si fidava a restare solo in casa con il terrore dei bombardamenti. Pensava di essere più sicura all’aperto in laguna, dove non ci sono case che ti crollano addosso. Una famiglia spezzata. Nell’impatto la donna scompare tra le acque, l’uomo viene ferito al torace, la figlia Giuseppina di 7 anni muore, l’altra di 11 anni, Bruna, riporta gravi lesioni intestinali. I più grandicelli, Alfredo di 12 e Michelangelo di 14 restano solo leggermente feriti, solo l’ultima nata, la piccola Elia, di poco più di tre anni ne esce incolume.
* * *
I primi ad accorrere in aiuto sono gli abitanti di Pellestrina. Incuranti del pericolo, mentre ancora infuria la minaccia di un altro passaggio di fuoco dei caccia, montano nelle loro barche da pesca per recuperare i naufraghi che arrancano fuori e dentro il piroscafo, ormai ridotto ad un ammasso di ferraglie. Difficile distinguere i morti dai feriti svenuti dal dolore. Sono tanti i superstiti che ricordano di aver riaperto gli occhi e ripreso conoscenza solo sopra una barella improvvisata o nel letto di un ospedale.
Il difficile compito di accertare anche un flebile segno di vita nei corpi recuperati e portati a riva tocca al dottor Marella, medico condotto del paese, tra i primissimi a giungere sul posto. A lui si aggiungono presto altri due medici religiosi dell’ordine dei Camilliani. Si lavora d’emergenza sulla nuda terra a curare i feriti, ad assistere i morenti, orribilmente mutilati. Il primo ricovero dei feriti più gravi è la casa del parroco. Don Guerrino Cavallarin, che è chioggiotto ed è il primo ad identificare alcuni morti e feriti e ad avvertire le famiglie. Ma sono tanti. Troppi. Si riempie l’ospedale dell’isola, un convalescenziario, ma anche le camerate del “Maris Stella”, gestito dai padri Canossiani in attesa di un ricovero. Qui finisce con ferite multiple al viso, alle mani e al corpo, anche Albino Lanza, capitano di lungocorso in pensione, che stava raggiungendo l’istituto di cui era direttore.
Appena giunta la notizia a Venezia partono subito alla volta di Pellestrina autorità, sanitari, organizzazioni di volontari. Prendono il largo già alle 13,30 dal capoluogo tre battelli dell’Acnil e dell’U.N.P.A, squadre dei Servizi lagunari del Comando tedesco, i vigili del fuoco. Le cronache ricordano anche alcuni nomi dei medici mobilitati in questo soccorso: i professori Romani, De Marchi, Molinari, Bellavia e le suore Oliva e Anna dell’Ospedale civile; i dottori Maggio, Caruso, Spangaro della Croce Rossa e il dottor Cassini del pronto soccorso ospitato nella sede dell’istituto Manin. Sono loro che provvedono alle medicazioni più urgenti e che assistono i feriti nel trasporto all’ospedale. Un lavoro affannoso e febbrile, che si prolunga per tutto il pomeriggio, reso ancor più difficile dalla persistente paura degli aerei che continuano a sorvolare quel corridoio lagunare.
Solo alle 19 giungono di ritorno in Riva degli Schiavoni i tre battelli. Trasportano una cinquantina di feriti, i più gravi. Alcuni sono davvero gravissimi al punto che non riusciranno neppure a raggiungere il luogo di cura. Li dividono tra il “Metropol”, l’albergo requisito dai tedeschi e trasformato in ospedale della C.R.I., e l’Ospedale Civile. Lo sbarco dei feriti ha luogo sotto lo sguardo incredulo e inorridito di una folla ansiosa di notizie che si assiepa sempre più numerosa attorno all’imbarcadero.
* * *
Compito arduo quello di individuare l’identità delle vittime di quella catastrofe. L’unica lista di nomi certi da verificare è quella del personale di bordo: complessivamente dodici persone. Quando dopo molte ore si prova a stilare un primo consuntivo si ha subito, in piccolo, la portata del dramma: due morti, quattro feriti, ma ben sei dispersi. Sono deceduti il timoniere Antonio Ballarin e il marinaio Dobrillo Bellemo, spirati durante il trasporto in ospedale e poi trasferiti all’obitorio dell’ospedale Sant’Anna di Venezia. I feriti sono il bigliettaio Giovanni Vetturi, i marinai Giordano Bellemo, Mario Vianello, il fuochista Giuseppe Piasentin. Mancano all’appello i bigliettai Luigi Antonini e Giuseppe Gradara e i due fratelli Clodomiro e Dante Ravagnan addetti al bar di bordo.
Al “Metropol” vengono ricoverati una ventina di feriti, in gran parte donne; Amalia Ceola, Valeria Pagan, la ragazzina quattordicenne di cui abbiamo parlato, Giuseppe Cusimano, Angela Ricchi, Felice e Annamaria Padoan (marito e moglie), Rosa Zennaro, Elia Padoan, infermiera dell’Ospedale al Mare, Vincenza Schiavon, Armando Russo, Maria e Nina Soncin (madre e figlia), Maria Battistella, Ofelia Girardello, Edvige Busetto in Vianello, Luigia Busetto, che subisce la trapanazione del cranio, Aldo Colombo (il fratello era appena stato ferito nell’ultima incursione aerea su Mestre), Elsa Ceolin, Manlio Voltolina, Giuseppe Bottoni, il bigliettaio del piroscafo Giovanni Vitturi.
All’ospedale Sant’Anna: il caporale della contraerei Giuseppe Zambon di Punta Sabbioni e il fanalista Cesare Bandi.
All’Ospedale Civile vengono condotti i più gravi. Ci sono alcuni feriti dell’equipaggio: Giuseppe Piasentin e Giordano Bellemo, i polesani Pietro Pregnolato e Luigi Barbieri, il vicentino Giovanni Mosele, le veneziane Maria Bagatin, Giovanni Vianello di Pellestrina, Alcibiade Papini, Antonia Rosera e tanti chioggiotti: Nicola Doria, Corrado Scarpa, Antonio Bighin, Antonietta Bonivento, Elvira Ranzato, Giuseppe De Ambrosi, Renato Ballarin, futuro parlamentare e sindaco di Chioggia, Guido Tiozzo, che ha perso un braccio, Sperino Ballarin. Ezio Caraceni, Francesca Zennaro, Carlo Sambo. E anche sei membri della famiglia che si trovava nella barca da pesca coinvolta del bombardamento. Accanto al padre Angelo Nordio, e alle sorelline Bruna e Giuseppina (che però muore qualche ora dopo il ricovero) vengono ricongiunti anche gli altri meno gravi, compresa la più piccola di tre anni incolume, rimasti orfani della mamma. Ce ne sono anche altri che non è facile identificare subito, come quel giovanotto ventenne giunto in serata, spirato nel tragitto nelle braccia di una suora infermiera.
Anche da Chioggia, appena ci si rende conto della tragedia, si muove un convoglio di barche, per collaborare ai soccorsi. Ma anche per portare i familiari dei passeggeri, ansiosi di conoscere la sorte dei propri cari, che avevano salutato qualche ora prima. La ricerca affannosa a volte si prolunga per giorni trasformandosi in una vera odissea per ospedali, case di cura, infermerie di tutto il circondario. Tanti, proprio tanti, non si trovano subito perché stanno ancora lì sotto.
* * *
Il recupero delle salme imprigionate nel relitto avviene all’indomani. Da Venezia parte di buonora un battello dell’Acnil, con i contrassegni della C.R.I. che porta i palombari della Marina con le loro attrezzature. Ci sono anche un medico dell’U.N.P.A. ed alcuni infermieri.
Riportare a riva le salme irrigidite dalla morte nelle posizioni più drammatiche non è facile cosa. È uno strazio indicibile anche per gli operatori più incalliti. E poi è uno spettacolo d’inferno che non finisce mai. Dalle proporzioni immani, che nessuno immaginava prima dell’immersione dei subacquei. L’affannoso e intenso lavoro del giorno avanti per recuperare dall’acqua e curare dalle ferite il numero maggiore possibile di sopravvissuti aveva portato ad illudersi o a sperare d’aver esorcizzato almeno in parte la morte. Invece no. La tragedia doveva ancora mostrare la sua faccia più orribile.
Per comprenderne solo parzialmente le proporzioni, basta scorrere la lista redatta alla conclusione delle operazioni. Dopo che le salme erano state allineate a terra, tutte in fila, per identificarne la precisa causa di morte – ferite da mitragliamento o da bombardamento o altro di analogo – e per espletare le difficili e dolorose operazioni di riconoscimento di quei corpi dai volti ormai sformati.
Sono 67 i nomi della lunga lista delle salme recuperate, estratte dalla motonave affondata o pescate con lo strascico nel fondale circostante. E per la prima volta riteniamo giusto riprodurla integralmente, con l’avvertenza che i morti di questa tragedia sono molti di più. Feriti gravissimi spirati nel trasporto all’ospedale o qualche ora o qualche giorno dopo il ricovero. Altri recuperati subito nel turbinio delle acque insanguinate privi di vita al momento dei primi soccorsi.
1) Frizzolo Antonio,
2) Renzini Argo
3) Premoli Arturo
4) Cemolin Ugo
5) Schiavon Giovanni
6) Franzoso Renato
7) Vianello Attilio
8) Gorin Maria
9) Gobbin Gino
10) Scarpa Elvira
11) Busetto Augusta
12) Scarpa Giuseppe
13) Boscolo Luigi
14) Doria Bruno
15) Rasi Virginio
16) Barbieri Emilio
17) Vianello don Natale
18) Massi Attilio
19) Grassi Regina
20) Ballarin Sergio
21) Bullo Carlo
22) Alverdi Augusto
23) De Bei Walter
24) Scarpa Domenico
25) Brozzolo Marco
26) Ceolin Elvira
27) Antonini Luigi
28) Sambo Augusta
29) Albertini Amalia
30) Scarpa Lea
31) Scarpa Vincenzo
32) Bullo Cesare
33) Chiereghin Domenica
34) Rocco Margherita
35) Brozzolo Aldo
36) Boscolo Lino
37) Chiereghin Fulvio
38) Liviero Armido
39) Voltolina Felice
40) Padoan Leonoro
41) Voltolina Elva
42) Oselladore Fortunato
43) Doria Domenico
44) Dalla Barba Umberto
45) Enzo Fernando
46) Frizziero Antonio
47) Ghirardon Angelo
48) Puggiotto Andrea
49) Bellemo Regina
50) Perini Nicola
51) Camuffo Elisa
52) Salvato Giancarla
53) Bonaldo Maria
54) Boscolo Angelo Beggio
55) Novello Agostino
56) Ballarin Rita
57) Spunton Roberto
58) Pregnolato Prima
59) Gardin Armando
60) Ravagnan Clodomiro
61) Doria Antonia
62) Boscolo Riccardina
63) Boscolo Antonio Mezzopan
64) Valeri Gisella
65) Longo Leandro
66) Barbieri Vasco
67) Cadavere sconosciuto.
Come si potrà notare dai cognomi uguali non si riesce, in questa triste incombenza, neppure a mettere vicini i membri di una stessa famiglia.
Manca, poi, ogni riferimento ai militi tedeschi deceduti e recuperati, almeno 4 o 5, che pur alcuni testimoni, come Franco Scarpa (vedi testimonianza riportata accanto) con molta certezza ricordano prima allineati sulla riva, poi sottratti con tempestività da altri soldati tedeschi giunti dal Comando e trasportati con una barca requisita.
Di questa immane tragedia, comunque non si darà mai con precisione il numero totale delle vittime. Resterà sempre imprecisato anche il numero dei “dispersi”. Lo stesso recupero delle salme resterà incompleto, perché molti altri resti verranno ritrovati nelle cabine sottocoperta un anno dopo, quando il relitto del piroscafo verrà recuperato.
Indubbiamente le urgenze della guerra, che continuava spietata, impediscono alle autorità di fare nell’immediato un bilancio esauriente del tragico evento. Ma contestualmente s’incrociano anche ragioni di propaganda che portano le autorità fasciste a gonfiare le cifre (peraltro già incomparabili) continuando a parlare genericamente di circa duecento morti. “La nuova delittuosa impresa dei liberatori”, “un altro feroce crimine degli anglo-americani”: sono gli slogan con cui la stampa del regime fin dal primo momento definisce quell’inutile massacro di civili, consumato “in assenza di obiettivi militari”.
Ma anche successivamente, dopo la liberazione, non si farà nulla per ripristinare la verità, neppure da parte delle forze democratiche. E non solo nel definire il vero numero delle vittime, ma neppure nel chiarire le ragioni che portarono a questa incomprensibile eccidio di persone innocenti. Si continuò a parlare genericamente, e mai ufficialmente, di una segnalazione di un movimento di truppe tedesche che doveva imbarcarsi in quel piroscafo. (È accertato che avvenne alla stessa ora il giorno seguente). Si sarebbe trattato, in questo caso, di un clamoroso errore di valutazione dei tempi, oppure sarebbe intervenuto a depistare i piani un contrordine del comando tedesco? Difficile dirlo. Prevalse comunque forte il bisogno di rimozione di quell’errore-orrore che rappresentava sempre un’onta per le forze liberatrici che poi negli anni del dopoguerra, più o meno direttamente, avrebbero garantito un’egemonia sulla nuova classe dirigente.
* * *
L’incursione aerea di quel tragico 13 ottobre scrive anche un secondo capitolo di morte, che ne aggrava ulteriormente responsabilità e accresce gli interrogativi. A pochi minuti dello sganciamento delle bombe contro la motonave, quasi non sazi di quella carneficina, gli aerei alleati portano distruzione e lutto anche nel centro di Chioggia. È uno dei bombardamenti più devastanti tra quelli subiti dalla città in questo periodo. Vengono colpite 25 case in vari punti dell’abitato e 12 sono totalmente distrutte. L’area più colpita è quella che guarda il canal Lombardo, in particolare nei pressi della dogana e delle scuole.
Tutto si consuma in pochi minuti. Neppure il tempo di cercare riparo. Lo spettacolo di rovina e morte si affaccia improvviso agli occhi di chi sta ancora avvicinandosi a casa. E trova i propri cari sotto le macerie. A volte senza vita, a volte semplicemente terrorizzati, miracolosamente illesi tra travi inclinate e finestre infrante. Mamme stravolte che cercano le proprie creature. Una giovane donna con il volto insanguinato che urla come un’ossessa, non per il dolore delle sue ferite, ma perché la sua unica figlia esanime non risponde più ai suoi richiami. Ci sono intere famiglie decimate. E lunghe file di feriti che s’accalcano all’ingresso dell’ospedale. Qualcuno molto grave non ce la fa. Come il vegliardo capostipite di una storica famiglia di antifascisti, gli Erba, Francesco Bonivento, colpito mortalmente nei pressi della sua falegnameria da una scheggia al polmone. Era riuscito a superare le più atroci infamie e persecuzioni dello squadrismo e della dittatura, il carcere, il confino a Lipari, l’esilio con i figli. Ma non la furia della guerra.
Anche in questo caso il bilancio delle perdite è pesantissimo. Sono una ventina i morti, colpiti direttamente dei proiettili o dalle schegge delle bombe, rimasti sepolti dal crollo della loro abitazione, o spirati poco dopo in un letto d’ospedale. Tutta gente del popolo: Mario Bighin, pescatore; Rosa e Regina Bozza, casalinghe; Norma Nordio, fruttivendola e il quattordicenne Aristide Lanza; il pescivendolo Bruno Gradara con la figlioletta di 3 anni Paola; Noemi Sambo, casalinga; Aldino Bertotto; Antonia Crivellari, merlettaia; Luigia Voltolina e la cognata Antonietta Buseghin; Ersilia Ardizzon, casalinga e il figlio dodicenne Danilo Bellemo; il pensionato Fernando Zen. Tra questi anche un dipendente dell’Acnil, il timoniere Antonio Tornielli, giunto a Chioggia da Venezia proprio con la corsa precedente dello sfortunato piroscafo Giudecca e trattenutosi in città per sbrigare alcune faccende personali. Molti anche i feriti: oltre una cinquantina, di cui una ventina molto gravi. A dar man forte alle emergenze sanitarie, giungono all’ospedale di Chioggia i medici della Croce Rossa di Mestre.
* * *
La costernazione di un’intera città si rende ancor più visibile all’esterno quando da Pellestrina e dagli altri obitori vengono trasferite le salme per trovare sepoltura nei cimiteri di Chioggia e Sottomarina. Gli annunci listati a lutto riempiono in maniera abnorme gli ingressi delle chiese con elenchi interminabili di nomi.
E il lunedì 16 ottobre si celebra un unico solenne rito funebre per tutte le vittime dell’incursione aerea e del bombardamento della Giudecca.
* * *
Due anni dopo, il 13 ottobre 1946, viene solennemente benedetto nel luogo del disastro, dal vescovo della diocesi clodiense, monsignor Giacinto Ambrosi, alla presenza delle massime autorità, un capitello lavorato in ottone con l’immagine in bronzo della Madonna con il Bambino, modellata dall’artista veneziano Martinuzzi. È lo stesso pastore della comunità di Pellestrina, monsignor Ferruccio Vianello, alla testa di un comitato a rendersi promotore dell’iniziativa, a perenne ricordo delle “vittime innocenti massacrate dalla barbarie della guerra”, ma anche dell’umana pietà e solidarietà di un intero paese accorso con slancio ed eroismo a portare in salvo i superstiti, alleviare le sofferenze dei feriti, a comporre con dignità i morti.
In questo luogo tornano a pregare e a ricordare ogni anno le comunità di Pellestrina, Venezia e Chioggia.
Sergio Ravagnan
* Il racconto storico è stato costruito sulle testimonianze scritte di Renato Ballarin (in “Chioggia Proletaria” del 21.12 1949), di Albino Lanza (in “Cronache Clodiensi”, ottobre 1954), di Guido Tiozzo e di Meri Bonivento (in “Chioggia nel ‘900” di S. Ravagnan e G. Scarpa pp. 239-241), di Valeria Pagan, (testimonianza orale all’autore) e sulle cronache dell’epoca (Il Gazzettino e la Gazzetta di Venezia; una “Cronachetta” del parroco di Sant’Andrea mons. Marino Callegari; la “Rivista di Venezia” del 1956 e su ricerche d’archivio all’anagrafe di Pellestrina, all’archivio storico di Chioggia e di quello dell’Actv.
Si ringraziano per la collaborazione il Presidente del Consiglio di Quartiere n. 4 “Pellestrina – San Pietro in Volta” Emilio Ballarin, la professoressa Rossella Favero, la dottoressa Flavia Fuiano e l’Associazione culturale “El Fughero”.
La tragedia del “Giudecca”
vista dalla gente di Pellestrina
nel racconto di Franco Scarpa Barche
testimone oculare
a cura della Commissione Cultura del Consiglio di Quartiere
“Pellestrina – San Pietro in Volta”
Per la mia famiglia si è trattato di una tragedia nella tragedia. Perché a bordo c’era il fratello di mia madre, un giovane sacerdote, Giuseppe Vianello Tranquillo. Era lì a bordo, e mia madre lo sapeva, e il “Giudecca” si è venuto ad adagiare proprio lì, davanti a casa nostra, in calle della Parrocchia.
Avevo dieci anni, li avevo fatti ad aprile. Noi, e dico noi perché ero con l’amico Celestino, quel giorno tutta la mattinata, nel magazzino di casa mia, l’avevamo passata a costruirci una barchetta giocattolo. E stavamo facendo le prove di galleggiamento sulla scalinata davanti alla chiesa, quando la nostra gioia, dovuta al fatto che la barca galleggiava, è stata interrotta dall’arrivo di quello sparuto gruppo di aerei.
Quegli aerei erano così leggeri, così agili, rispetto alle tristemente famose fortezze volanti, che noi giornalmente vedevamo passare, e che, divertiti nell’incoscienza dell’infanzia, ci mettevamo a contare. Andavano, ma non sapevamo dove: Marghera, o Padova…. Noi tutti stavamo con il muso all’insù, lì in piazza, e le contavamo, e quindi quei pochi esili apparecchi quel giorno non ci impressionarono più di tanto al momento.
Saranno stati tre o quattro, si sono messi a girare, una sorta di avvertimento. Alcuni tra i più scaltri dei passeggeri hanno capito al volo, sono saltati in acqua e hanno salvato la pelle. Uno era un fuochista nostro paesano fuori servizio che tornava da Chioggia, e rientrava a casa; vista la malaparata si è tuffato in acqua.
Subito dopo gli aerei si sono messi a mitragliare, e poi a bombardare; tutto è durato veramente poco.
A questo punto io e Celestino ci siamo messi a ridosso di quell’osteria che è ancora lì oggi, che allora chiamavamo “del sior Carlo” (lo chiamavamo “sior” perché di origini non era un paesano).
Ecco, eravamo lì a ridosso della casa e dell’osteria. E un attimo dopo: camini, tegole, pezzi di muro, tutto ci cadeva addosso. Allora ci siamo riparati in casa della Rita “Fornera”, e da lì abbiamo assistito al dramma.
Sarà durato in tutto cinque minuti. Il “Giudecca” non è stato colpito in pieno. La bomba più vicina è caduta all’altezza del ponte di comando, la plancia; infatti è stata scardinata dal proprio appoggio.Nelle foto si vede.
Mi ha fatto molto impressione allora l’audacia dei pescatori, che si sono subito staccati dalla riva con delle piccole barche. Allora non c’erano pescherecci, solo sanpierotte, quei sandali che sono tipici da noi. E quei pescatori subito si sono buttati con il pericolo che ancora volava sopra le loro teste, perché mica era finita.
Il bombardamento è cominciato all’altezza del cimitero. Poi, lemme, lemme, il “Giudecca” si è venuto ad adagiare davanti alla chiesa senza più muoversi.
I pescatori, come dicevo, si sono subito lanciati al recupero delle persone scampate al mitragliamento e alle bombe, che rischiavano di annegare. Inoltre c’era un altro pericolo: un affondamento così rapido poteva provocare lo scoppio della caldaia, così almeno dicevano i “grandi”. Ma i pescatori, incuranti del rischio che correvano, facevano senza sosta questo andirivieni; un fatto certamente da menzionare, che va tutto a loro merito.
I vivi li portavano sulle rive, i morti dritto dritto al cimitero.
La superiora delle suore dell’ospedale civile di Pellestrina l’hanno recuperata aggrappata a una bricola. Lei a bordo era assieme a mio zio, il sacerdote. Mio zio le fa: «Andiamo sotto, questi che intenzioni hanno? » La suora dice: «Io seguo il destino». Lui è andato sotto. Lei è rimasta sopra e si è trovata abbracciata a una bricola e salva.
Mio zio invece l’hanno ripescato qualche giorno dopo i palombari. Aveva tutto il volto sfigurato. Ricordo ancora il suo corpo nella cappella del cimitero, col viso coperto da un fazzoletto bianco.
Il recupero delle salme è continuato tutto il giorno, fino a sera, e i giorni seguenti. Infatti uno dell’equipaggio l’hanno ripescato qualche giorno dopo nei pressi di Caroman i pescatori con la rete; forse era il nostromo.
C’era uno che chiamavano “Sordo”, di cognome era Bergamasco, che abitava in calle Colonna, che si tuffava continuamente. Andava nelle cabine a prendere i morti, e riportarli sù, … in apnea, senza maschere e scafandri!
Anche sul numero dei Tedeschi c’è qualcosa da dire; pareva che fossero chissà quanti! Invece i Tedeschi morti in divisa, io li vedo come se li avessi ancora davanti, allineati sulla fondamenta, proprio dove adesso c’è il busto di monsignor Ferruccio Vianello, perpendicolari alla banchina; erano quattro o cinque, non di più. Poi sono venuti i militari tedeschi da Chioggia con un peschereccio requisito e se li sono portati via.
C’è anche un particolare di cui non si parla, di solito non menzionato, non so perché. C’era una barca per il piccolo trasporto, di quelle che noi chiamavamo “battellucci”. A bordo c’era una piccola famiglia, marito, moglie e una bambina. L’unica colpa che avevano era di trovarsi nella stessa rotta del “Giudecca”. L’imbarcazione è stata affondata, il papà è morto, la mamma è stata ferita.
A questo proposito ci sono particolari che non so se nascono dall’immaginazione della gente, dall’emozione di quei giorni. Allora comunque si disse che la mamma, mortalmente ferita, aveva avuto la forza di portare a riva la piccola prima di morire.
La barca, ricordo, l’avevano tirata su proprio di fianco all’osteria di cui parlavo prima. Con tutte le riserve alimentari nella sentina, poche cose. Mi ricordo la pasta, il riso, la pignatta …
C’era il rischio che anche sulla riva qualcuno fosse colpito. Anche la facciata della chiesa è stata tutta crivellata dalle schegge o dal mitragliamento. Dove c’è la canonica quel “nizioleto”, la targa in ceramica smaltata sopra la porta, è stato perforato da una scheggia. E dal finestrone di destra della chiesa è entrata una pallottola di mitraglia o una scheggia e ha portato via il bastone che aveva in mano san Giuseppe sull’altare in fondo a destra.
I giorni seguenti sono arrivati i palombari per recuperare quelli che erano rimasti in cabina: li hanno trovati rannicchiati sotto le panchine, come in cerca di protezione. E anche lì c’è purtroppo un episodio da menzionare: lo sciacallaggio! Purtroppo i corpi li hanno tirati su “puliti”, spogli di ogni oggetto prezioso.
I morti li hanno portati al cimitero, i feriti in ospedale, a Pellestrina, dritti con le stesse barche, e anche con le carriole.
Mio zio si trovava a bordo del vapore perché il giorno dopo era il trigesimo della morte di un altro fratello, anche lui vittima di un mitragliamento e di un bombardamento a bordo di una draga in canal Bianco tra Adria e Rovigo.
Lui era cappellano a Sottomarina, era prete da tre anni e compiva 27 anni giusto il giorno dopo. La nostra è stata una famiglia veramente provata dalla guerra… Per anni mia madre spesso quando sentiva passare il vaporetto delle 13 (l’ora del bombardamento), saliva in camera e si chiudeva dentro a piangere.
Il relitto del “Giudecca” affondato è rimasto lì a lungo, tanto che in seguito sono stati tolti il fumaiolo e le maniche a vento, perché c’era il timore che il relitto fosse scambiato per naviglio militare e quindi di nuovo bombardato.