Nella lunga serie di Vescovi di Chioggia, Jacopo Nacchianti emerge come singolare riformatore e come acuto teologo. Oggi si direbbe una tempra d'innovatore, ma, ai suoi tempi, questo comportava l'accusa di eresia: fu oggetto, infatti, di due inchieste inquisitorie, prima da parte di Roma e poi da parte del tribunale di Venezia. Ma non ci fu alcuna condanna.
Fu presente a tutte le sessioni del Concilio di Trento (1545-1563) : si dimostrò, all'inizio, assai turbolento in alcune questioni controverse; in seguito, fu più prudente e moderato e collaborò molto attivamente all'elaborazione dei canoni tridentini. La sua figura è stata studiata nelle tesi di laurea del sacerdote Pietro Alfredo Mozzato (Padova 1971).
La ricerca sul personaggio è stata condotta nell'archivio di Stato di Venezia, negli archivi della curia e del comune di Chioggia.
In nessun documento è stato possibile rintracciare la data di nascita, probabilmente essa è da collocare ai primi del 1500, dato che nel 1519 fece la professione solenne nell'ordine domenicano, e questa non poteva avvenire prima del 19° anno di età. La città natale fu Firenze, che troviamo riferita in latino nei documenti che riportano il suo nome: “de Florentia” oppure “florentinus” ; parimenti in latino ci viene riferito il suo cognome “Naclantus” o “de Naclantibus”. Conosciamo anche il nome di suo padre, Andrea. Al fonte battesimale gli fu posto il nome di Giovanni Battista, caro ai fiorentini. Non si conoscono le condizioni della sua famiglia. Una debole informazione ci è offerta dallo schedario del Bonnet e dalle memorie dei Loddi, che ci fanno sapere che egli probabilmente nacque e di certo trascorse i primi anni della sua vita nell'ospedale degli innocenti, il brefotrofio di Firenze.
Entrò giovanissimo nel convento di san Marco a Firenze, spinto da vocazione alla vita religiosa. Da notare che il convento di san Marco, fin dalle origini e anche quando diventò congregazione autonoma per opera del Savonarola, fu tra le rigide congregazioni degli osservanti.
Vestì l'abito di san Domenico il 7 marzo .Compiuti i corsi regolari nello studio minore, il giovane domenicano fu inviato nel 1528 a Bologna, per seguire gli studi di teologia. La scelta rivela una stima particolare, a prova della sua intelligenza aperta e versatile. A Bologna incontrò fra Michele Ghisleri, il futuro inquisitore e pontefice PioV, e fra i due nacque subito una sincera amicizia, ricordata con simpatia dal Nacchianti in una dedica allo stesso pontefice.
Nel 1534 ricevette l'incarico di “ magister sudentium” nello studio annesso al convento di Perugia: l'incarico includeva un impegno scolastico e disciplinare.
Dopo due anni d'insegnamento, il 15 ottobre 1536, fra Giacomo fu deputato al priorato del convento di Pisa: il nuovo priore viene presentato dall'anonimo autore della cronaca come “figlio di san Marco, uomo dottissimo e di angelici costumi”. Pisa non l'ebbe che per pochi mesi; nel maggio dell'anno successivo infatti fu destinato al priorato di Lucca. Anche qui rimase solo un anno. Nel 1538, il capitolo provinciale di Viterbo lo designò di nuovo a Perugia, nello studio generale dei Domenicani, un incarico di tre anni. Terminato il triennio di Perugia, fu destinato al convento della Minerva a Roma e, contemporaneamente, fu pure nominato definitore provinciale.
In quegli anni reggeva la Chiesa papa Paolo III. La sua fine educazione umanistica l'aveva reso un pontefice mecenate di stampo nuovo: favorì preti, letterati e umanisti e con generosità si dedicò a proteggere canonisti e teologi. Fra questi avevano un posto privilegiato i domenicani, i carmelitani e i gesuiti che, per le loro condizioni, potevano meglio corrispondere alle esigenze delle scienze sacre. Il papa, per favorire i letterati e i teologi e per suscitare l'emulazione tra essi, volle che i primi letterati della corte tenessero delle dispute durante le sue refezioni. A tali dispute partecipò frequentemente anche p. Giacomo Nacchianti, il quale potè così far conoscere la sua straordinaria cultura e le sue doti singolari, tanto che il papa, stupito dalla sua preparazione, pensò di premiarlo a tempo opportuno .La presenza del Nacchianti alla mensa papale è confermata dal Massarelli, segretario del concilio di Trento. Scrisse infatti nei suoi diari: ”Costui è frate di san Domenico, ed essendo scacciato dalla sua religione, sua Santità per compassione lo raccolse e gli dava 15 scudi al mese per intrattenersi, et lo intrometteva alle dispute quando mangiava”.
L'annotazione “scacciato dalla sua religione” desta sorpresa. Dalla documentazione conosciamo un Nacchianti insospettabile, anzi apprezzato e stimato. Quale poteva mai essere il motivo di un giudizio così pesante? Il Massarelli anticipava forse le note caratteristiche del vescovo di Chioggia, cioè la tenacia e il coraggio delle sue idee, come fu scritto dagli storici del Concilio e come fu testimoniato nell'inquisizione del 1549. C'è da aggiungere che tra il Nacchianti e il Massarelli non corse mai buon sangue. Questi, inviato a Chioggia nel dicembre del '48 dall'Inquisizione romana, per raccogliere testimonianze contro lo stesso vescovo, si dimostrò “passionato” contro di lui, come affermano alcuni testi.
Papa Farnese, cui stava grandemente a cuore la questione del Concilio, s'adoperò, fin dai primi anni del suo pontificate, a preparare cardinali e teologi che avrebbero dovuto condurlo avanti. Ma in particolare si preoccupò di provvedere le chiese di “scienziatissimi vescovi onde di loro utilmente servirsi nel generale concilio di Trento”.
Moriva intanto nel 1553 a Chioggia, nello Stato Veneto, Alberto Pascaleo. Il Papa Paolo III, mosso dal pensiero del Concilio e riconosciuta la cultura teologica del Nacchianti, lo promise a quel vescovado. L'elezione avvenne nel concistoro del 30 gennaio 1544. Eletto vescovo di Chioggia, fra Giacomo Nacchianti continuò, probabilmente, l'insegnamento teologico alla Minerva fino al termine dell'anno scolastico. Non è possibile datare con precisione la presa di possesso; siamo informati però che i primi atti del suo servizio pastorale, in diocesi di Chioggia, avvennero ai primi di ottobre dello stesso 1544.
Il suo merito maggiore fu quello d'incarnare quell'ideale di pastore che lui stesso, come parecchi del suo tempo avevano descritto, con zelo pastorale davvero raro a quei tempi. Scrive lo storico Alberigo:” Fra tutti i vescovi italiani dell'epoca, i casi di dottori in teologia o eventualmente in filosofia, furono rarissimi… ; l'attività pastorale vera e propria per la maggioranza dei vescovi veneti si ridusse al minimo, cioè alla nomina di un vicario generale. Si pensi, continua lo storico, che per neppure la metà di questi vescovi è stato possibile rinvenire una traccia qualsiasi di attività e di presenza in diocesi, e quelli che praticarono con una certa serietà la residenza furono molto meno”.
Per questo motivo le testimonianze dell'episcopato del Nacchianti segnano un raro esempio di attiva e solerte cura pastorale e di autentica fedeltà al mandato di Cristo.
Del dovere della residenza il Nacchianti fu assertore audacissimo a Trento, schierandosi per lo “ jus divinum” e in diocesi, nell'arco dei suoi 25 anni di servizio, severo ed esemplare esecutore.
Per la cura delle anime gli “ Atti” registrano tre visite pastorali e una quarta iniziata prima di morire; la celebrazione dei suoi sinodi e, per un terzo, era ormai approntato il lavoro di preparazione delle nuove costituzioni. Alla predicazione egli si applicò con instancabile coraggio e con una apertura nuova pur in meno ed un popolo “ ignorante e grosso”.
Si deve tener conto come “..in un periodo di generale rilassamento, sono parole dell' Alberigo, e di grave decadenza della visione stessa dei doveri apostolici” egli abbia tentato, pur davanti all'indifferenza e all'opposizione dei canonici del tempo, un'audace educazione del popolo al senso vero del sacro, al culto genuino di Dio e all'assistenza dei poveri e dei bisognosi, sempre numerosi in città e in diocesi.
Nel suo testamento, dopo aver provveduto agli obblighi di giustizia, il suo pensiero andò ai poveri: “..El resto veramente di tutti li miei beni…per questo mio ultimo testamento, lascio che sia dispensato alli poveri”.
Nacchianti, vicino ai poveri, lo scopriamo povero e severo nella sua vita. Sempre dagli “Atti” sappiamo come egli abbia tentato di spogliare le visite pastorali di quella odiosità che suscitavano nel clero per i gravissimi obblighi che comportavano. Le sue visite vennero all'insegna della più grande semplicità: si fa menzione soltanto della compagnia di un chierico della curia.
Una sua nota caratteristica fu la ricerca dell'essenziale. Nei discorsi che accompagnarono i sinodi, da lui presieduti, è evidente lo sforzo di uscire dall'inutilità delle leggi scritte e la volontà di restaurazione disciplinare, facendo leva sulla forza dell'unica legge cristiana, cioè della carità. “Poveri noi, ripetè anche in un intervento in aula conciliare, se per onorare Dio cerchiamo una legge diversa da quella lasciataci da Cristo: nessuna legge può essere più forte e più efficace di questa “.
I vescovo Nacchianti morì il 25 aprile 1569. Come aveva chiesto lui stesso nel testamento, fu sepolto nella chiesa dei domenicani, nella cappella di san Tommaso, fatta costruire e dotata in precedenza dallo stesso.
Sulla pietra sepolcrale fu scritto semplicemente.” Jcobus Naclantus ord. praed. episc. Clugiensis”.
Sul Nacchianti hanno scritto inoltre:
Angelo Padoan
Sergio Ravagnan