[vc_row][vc_column][vc_column_text]
di Giorgio Aldrighetti
[/vc_column_text][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_tta_pageable no_fill_content_area=”1″ active_section=”1″ tab_position=”top”][vc_tta_section title=”Sezione 1″ tab_id=”1459159097365-ff19b32c-7170″][vc_column_text]I Comuni, ai tempi del feudalesimo, non possedevano stemmi, ma rendendosi indipendenti, già con il XII secolo, assunsero uno stemma, concesso di norma dall’imperatore o dal vescovo. Nel tempo, oltre che i Comuni, assunsero degli stemmi anche le Contrade, le Corporazioni, le Fondazioni e le Opere Pie.
Lo stemma civico, di conseguenza, non è altro che un simbolo rappresentato graficamente, che raffigura la dignità, l’onore, la personalità di un Comune, di una Provincia, di una Regione, considerati nella loro qualità di Enti giuridici pubblici, con la conseguenza che il diritto allo stemma civico spetta al Comune, alla Provincia, alla Regione come Ente, e non già ai singoli cittadini che di tali comunità ne fanno parte, risultando elementare la distinzione fra la personalità giuridica degli Enti collettivi e quella dei singoli componenti. 1)
Ne consegue che la difesa o meglio la tutela di uno stemma civico tocca la sfera del diritto pubblico, configurando sotto i suoi vari aspetti il diritto dell’Ente territoriale, proprietario esclusivo del proprio stemma, alla tutela di esso, diritto implicante la facoltà di impedirne l’uso da parte di privati. 2)
Gli Enti territoriali hanno quindi l’obbligo di vigilare affinché il proprio stemma non venga usato da enti diversi, perché il dominio dello stemma è esclusivo e l’uso da parte di chiunque non ne abbia l’appartenenza lede il diritto del legittimo possessore. 3)
Dal XII secolo, sino ai nostri giorni, lo stemma civico, che serve per distinguere i Comuni, le Province e gli altri enti territoriali tra di loro, venne usato sia nella forma originaria sia con le modifiche causate da rivolgimenti politici o da successive sovrane concessioni.
Nel XIX secolo, invece, molti Comuni, che risultavano sprovvisti di stemmi civici, adottarono uno stemma, talvolta senza la prescritta autorizzazione dell’autorità governativa.
Con la creazione della Consulta Araldica del Regno d’Italia, nel 1869, invece, si cercò subito di disciplinare la materia, affermando, tra l’altro, il principio che solo tale Istituto aveva la facoltà di istruire le pratiche araldiche e di fornire i conseguenti pareri, prima dell’emanazione dei decreti reali e delle conseguenti Regie Lettere Patenti di concessione dello stemma.
Con il R.D. 5 luglio 1896, n. 314, si istituì, invece, il “Libro Araldico degli Enti Morali” dove vengono riportati tutti i decreti concessivi di stemmi, gonfaloni, sigilli e bandiere ad enti territoriali e morali.
Gli enti territoriali si identificano nelle Regioni, Province, Città e Comuni, mentre quelli morali riguardano le Fondazioni, Università, Banche, Opere Pie, Ospedali e Corpi militari
Ai giorni nostri la materia trova la propria disciplina nell’Ordinamento dello stato nobiliare italiano, approvato con il R. D. 7 giugno 1943, n. 651 e nel Regolamento per la Consulta Araldica, reso esecutivo con il R. D. 7 giugno 1943, n. 652, mentre l’istruttoria per la concessione degli stemmi civici e la stesura dei Decreti Presidente della Repubblica concessivi dello stemma, compete all’Ufficio Araldico istituito presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri.
Le parti dello stemma di un ente territoriale o morale si compongono dello scudo, della corona e dell’elemento decorativo, mentre non sono riproducibili gli elmi, ai sensi dell’art. 67 del R.D. 7 giugno 1943, n. 652, e, di conseguenza, anche il cercine, gli svolazzi ed il cimiero, elementi questi indissolubilmente connessi all’elmo nell’araldica ed altresì esclusi figurano anche i motti, i sostegni ed i tenenti, come previsto dall’art. 39 del R.D. 21 gennaio 1929, n. 61.
Per lo scudo, che è l’elemento più importante di uno stemma, si seguono le stesse regole di qualsiasi altro scudo araldico gentilizio o ecclesiastico, in quanto lo stemma di un ente territoriale pur essendo lo stemma di una comunità, e non uno stemma gentilizio o ecclesiastico, è a tutti gli effetti uno stemma araldico; di conseguenza dovrà essere “appuntato”e misurare sette moduli di larghezza e nove moduli d’altezza, salvo speciale concessione ad usare un altro scudo come nel caso della città di Venezia che legalmente usa uno scudo “di forma veneta”, riconosciuto con Decreto del Presidente della Repubblica 6 novembre 1996.
Per la corona, che costituisce la seconda parte di uno stemma di un ente territoriale o morale, nel mentre ricordiamo che nell’araldica civica rientrano, di norma, gli stemmi degli Stati, delle Regioni, Province, Città, Comuni, preme subito precisare che le Regioni, essendo sorte dopo l’emanazione dei RR. DD. 7 Giugno 1943 nn. 651 e 652, non dispongono legalmente di corone.
Ma l’Ufficio Araldico istituito presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri ha previsto per tale tipo di ente una corona d’oro all’antica, come si evince dalla concessione dello stemma alla Regione Autonoma della Valle d’Aosta, il cui Decreto Presidente della Repubblica 13 luglio 1987 concessivo così recita: “Stemma: di nero, al leone d’argento, linguato e armato di rosso; alla bordatura diminuita, d’oro. Lo stemma è sormontato da corona d’oro, formata da un cerchio brunito, gemmato, cordonato ai margini, sostenente quattro alte punte di corona all’antica (tre visibili) alternate da otto basse punte, ugualmente all’antica (quattro visibili, due e due)”.[/vc_column_text][/vc_tta_section][vc_tta_section title=”Sezione 2″ tab_id=”1459159097577-c1e870f9-cfc2″][vc_column_text]
Per le Province, Città e Comuni, invece, le corone vigenti figurano blasonate negli artt. 95, 96 e 97 del Regio Decreto 7 giugno 1943, n. 652.
Per la corona di Provincia l’art. 95 del R. D. 7 giugno 1943, n. 652 così prescrive: “è formata da un cerchio d’oro gemmato colle cordonature lisce ai margini, racchiudente due rami, uno d’alloro ed uno di quercia al naturale, uscenti dalla corona, decussati e ricadenti all’infuori”.
E’ doveroso ricordare che la Consulta Araldica del Regno d’Italia, con deliberazione del 4 maggio 1870, aveva adottato per le Province “una corona turrita, formata da un cerchio d’oro, aperta da dodici pusterle (sette visibili), con due cordonate a muro sui margini, sostenente dodici torri (sette visibili), riunite da cortine di muro, il tutto d’oro e murato di nero”. Nel 1905, però, il Commissario del re presso la Consulta Araldica del regno, barone Antonio Manno, giustamente sostenne che se le città ed i comuni si possono supporre cinti da muraglie turrite o merlate, era illogico per non dire ridicolo, figurare il territorio di una intera provincia contornato tutto di mura.
Così mentre le città continuarono ad avere le corone turrite d’oro ed i comuni le corone merlate d’argento, il senatore Antonio Manno propose per le Province la corona che è tuttora vigente
e riportata nell’art. 42 del Regolamento tecnico araldico della Consulta Araldica del regno d’Italia, approvato con il R. D. 13 aprile 1905, n. 234 e nell’art. 95 del vigente Regolamento, approvato con il R. D. 7 giugno 1943, n. 652. Per la corona di Città, invece, l’art. 96 del Regio Decreto 7 giugno 1943, n. 652, così prescrive: “è turrita, formata da un cerchio d’oro, aperto da otto pusterle (cinque visibili) riunite da due cordonate a muro sui margini, sostenente otto torri (cinque visibili) riunite da cortine di muro, il tutto d’oro e murato di nero”.
Preme anche ricordare che l’art. 32 del R. D. 7 giugno 1943, n. 651, prescrive che il titolo di Città può essere concesso ai Comuni ai quali non sia già stato riconosciuto, insigni per ricordi e monumenti storici o per l’attuale importanza, purché abbiano provveduto lodevolmente a tutti i pubblici servizi ed in particolare modo alla pubblica assistenza.
Per la corona di Comune l’art. 97 del Regolamento per la Consulta Araldica, approvato con il R. D. 7 giugno 1943, n. 652, così prescrive: “è formata da un cerchio d’argento aperto da quattro pusterle (tre visibili) con due cordonate a muro sui margini, sostenente una cinta aperta da sedici porte (nove visibili) ciascuna sormontata da una merlatura a coda di rondine, il tutto d’argento e murato di nero”.
E’ da notare, come già ricordato, che alcune città e comuni, in ricordo di vetusti ed insigni privilegi, timbrano le proprie armi con “corone nobiliari”. Valgano gli esempi della città di Torino che timbra il proprio stemma “d’azzurro al toro furioso d’oro, cornato d’argento”, con una corona comitale, avendo tale città il titolo di contessa di Grugliasco e Signora di Beinasco o della città di Venezia che timbra il proprio stemma “d’azzurro, al leone d’oro, alato e nimbato dello stesso, con la testa posta di fronte, accovacciato, tenente fra le zampe anteriori avanti al petto il libro d’argento, aperto, scritto delle parole a lettere maiuscole romane di nero PAX TIBI MARCE nella prima facciata in quattro righe ed EVANGELISTA MEUS nella seconda facciata, similmente in quattro righe”, con il corno dogale, nel ricordo della millenaria Serenissima Repubblica di San Marco, o, ancora, della città di Casale Monferrato che, rispettosa delle proprie tradizioni e del patrimonio araldico conseguiti nei tempi, carica, nel proprio scudo , in inquartato, le armi dei Paleologi e degli Aleramici, con sul tutto un ostia raggiante, timbrando, ovviamente, lo scudo con corona marchionale, nell’insigne, vetusto ricordo del marchesato del Monferrato.
Si usano, altresì, delle “corone speciali” per Fondazioni e Opere Pie. Generalmente l’Ufficio Araldico istituito presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri consiglia per tali enti “una corona d’oro, formata da un cerchio brunito, gemmato, cordonato ai margini, sostenente quattro alte punte di corona all’antica (tre visibili), alternate da quattro basse punte, ugualmente all’antica (due visibili, una e una)”.
Per l’elemento decorativo, che costituisce la terza parte di uno stemma di un ente territoriale o morale, ricordiamo che esso consiste “in due rami di quercia con ghiande e di alloro con bacche, il tutto al naturale, fra loro decussati sotto la punta dello scudo e annodati da un nastro dai colori nazionali, di verde, di bianco e di rosso”.
[/vc_column_text][/vc_tta_section][vc_tta_section title=”Sezione 3″ tab_id=”1459160683041-610af557-73d6″][vc_column_text]Passando ora al gonfalone degli enti territoriali e morali, che deriva dall’antico termine francese gonfalon, ossia “stendardo da guerra”, dall’antico termine franco-germanico gundfahne, ossia “bandiera di guerra” e dal termine scandinavo gunnefane, ossia “bandiera da battaglia”, ricordiamo che agli albori dell’araldica era più comune degli stemmi.
E’ da osservare che anticamente il gonfalone veniva inalberato dalla Stato della Chiesa per chiamare a raccolta i vassalli ed i fedeli per la difesa dei suoi domini.
Il gonfalone, che, di norma, termina nella parte inferiore in diverse code pendenti chiamate “bandoni”, aveva il drappo di bianco se il santo patrono della città era un vescovo, di rosso, invece, se il santo patrono era un martire.
Anche i comuni avevano i loro gonfaloni, uno con lo stemma del comune, un altro con le insegne del popolo. I gonfaloni comunali erano portati da un gonfaloniere, ch’era per lo più il primo magistrato della città o della repubblica; i gonfaloni delle arti, corporazioni e quartieri erano portati da “banderaj”, “caporioni vessilliferi”, “sindaci delle arti”, “tribuni” e “capitani del popolo”.
Particolarissimo per la forma risulta essere invece il gonfalone papale, comunemente chiamato anche “basilica”, in quanto le chiese insignite del titolo basilicale, hanno la facoltà di tenere esposta tale insegna. Lo stendardo, a forma di ombrellone con il drappo a gheroni rossi e gialli, termina con i pendenti o bandoni tagliati a vajo, a colori contrastati; l’asta che sostiene l’ombrellone risulta a forma di lancia coll’arresto ed è attraversata dalle chiavi pontificie, una d’oro e l’altra d’argento, decussate, addossate, gli ingegni rivolti verso l’alto, legate con nastro di rosso.
Ricordiamo che l’art. 5 del Regolamento per la Consulta Araldica, approvato con il R. D. 7 giugno 1943, n. 652, stabilisce la foggia del gonfalone, avvertendo che non può mai assumere la forma di bandiera, ma deve consistere “in un drappo quadrangolare di un metro per due, del colore di uno o di tutti gli smalti dello stemma, e caricato dell’arma della città o della provincia, con la iscrizione centrata in oro recante la denominazione dell’ente, sospeso mediante un bilico mobile ad un’asta, ricoperta di velluto dello stesso colore del drappo, con bullette dorate poste a spirale, terminante in punta da una freccia rappresentante l’arma dell’ente e nel gambo inciso il nome. Cravatta con nastri tricolorati dai colori nazionali frangiati d’oro. Le parti di metallo ed i cordoni sono dorati”.
Per i gonfaloni dei Comuni che non possiedono il titolo di città, invece, l’iscrizione centrata, i ricami, le parti di metallo, i cordoni e le bullette poste a spirale sono di smalto “d’argento” e lo scudo comunale carica la corona di Comune prevista, come sopra ricordato, nell’art. 97 del Regolamento per la Consulta Araldica, approvato con il R. D. 7 giugno 1943, n. 652.[/vc_column_text][/vc_tta_section][vc_tta_section title=”Sezione 4″ tab_id=”1459160992097-e9b1f3c6-f44e”][vc_column_text]Il sigillo ricordiamo che è “elemento fondamentale dell’araldica, in particolare per quella dei primordi. Si presentava in tre caratteristiche fondamentali, con l’arme del proprietario, con la figura del proprietario a cavallo, con la figura del proprietario in trono”. 4)
“In epoche di diffuso analfabetismo i nobili non autenticavano i documenti con la propria firma ma apponendovi un sigillo, di conseguenza incidervi sopra le proprie insegne del possessore sembrò il modo più naturale per identificarlo immediatamente”. 5)
Il sigillo si compone di uno strumento di metallo o più raramente di pietra dura, recante incisa un’arme, che, applicato su cera o ceralacca fusa, lascia un’impronta in rilievo, sul documento che s’intende autenticare. Altrettanto il rilievo si può ottenere con un sigillo a secco. Il sigillo nella storia fu sempre elemento importantissimo, rappresentando il segno legale dell’autorità dell’imperatore, del re, del principe, del sommo pontefice, del condottiero e di qualsiasi stato o ente morale.
Il sigillo per gli enti territoriali serve ad identificare gli atti e i documenti; l’art. 57 del più volte citato Regolamento per la Consulta araldica, vieta a tali enti di servirsi dello stemma dello Stato, disponendo che il sigillo sia composto con quell’arme della quale l’ente avrà ottenuto la concessione o riportato il riconoscimento, a norma del vigente Ordinamento Araldico. L’art. 82 del Regolamento delle leggi comunali e provinciali del 1911 accolla al Segretario Comunale la responsabilità della custodia e dell’uso del sigillo. Il sigillo dello Stato, invece, viene custodito dal Ministro di Grazia e Giustizia, chiamato, per questo, Ministro guardasigilli.[/vc_column_text][/vc_tta_section][vc_tta_section title=”Sezione 5″ tab_id=”1459161143831-b7db4f60-cae0″][vc_column_text]Passando, infine, alla bandiera, che consiste in un drappo innalzato ad un’asta o pennone, ricordiamo che anticamente veniva portata, generalmente pendente da un bilico e si chiamava anche gonfalone.
Il termine deriva dal tedesco “band”, nastro, banda, striscia di drappo portata dai soldati sul vestito, a distinguere coi vari colori le diverse milizie.
Il termine “bando” per bandiera fu molto usato in Italia nel Medio Evo. Le bandiere trassero origine dalla necessità di distinguere a lunga distanza il corpo al quale appartiene una milizia e di consentire così ai soldati che la compongono facilità di riunirsi attorno al loro comandante, nel fragore della battaglia, evitando così la dispersione.
La bandiera, ai sensi dell’art. 113 del Regolamento approvato con il R. D. 7 giugno 1943, n. 652, può essere concessa, con Decreto Presidente della Repubblica, a Comuni, Città, Province e Regioni. In tal caso il drappo del vessillo porterà, ovviamente, caricata l’arme dell’ente insignito di tale ambito riconoscimento.[/vc_column_text][/vc_tta_section][vc_tta_section title=”Sezione 6″ tab_id=”1459161266096-48255aa6-dba1″][vc_column_text]E’ legittimo ora domandarsi quanti di questi enti alzino degli emblemi storicamente ed araldicamente perfetti. La risposta, purtroppo, è che ben poche amministrazioni usano degli stemmi rispettosi del proprio patrimonio araldico; infatti, osserviamo continuamente dei gonfaloni con le forme e le misure le più disparate, senza parlare degli stemmi in essi caricati che, nel tempo, tra l’altro, hanno persino modificato gli smalti e le positure delle figure.
Da una ricerca effettuata presso l’Archivio Centrale dello Stato e presso l’Ufficio Araldico della Presidenza del Consiglio dei Ministri abbiamo constatato, con vivo stupore, la sorprendente realtà che molti enti territoriali figurano, tuttora, sprovvisti di Decreti concessivi degli emblemi.
Parimenti è da osservare che parecchi enti hanno spesso smarrito l’originario decreto di concessione dello stemma e del gonfalone per cui, sovente, nascono errori grossolani nella rappresentazione delle figure araldiche e degli smalti nei gonfaloni e nella carta intestata dell’ente. A questi errori si aggiungono gli svarioni e le fantastiche interpretazioni di parecchi esecutori materiali delle riproduzioni delle armi, quali i dipintori, incisori, affrescatori e scultori, che non conoscendo le regole araldiche, costituiscono una vera spina nel fianco, da sempre, per gli araldisti.
Infine è doveroso evidenziare che per ottenere il riconoscimento o sostituzione motivata degli emblemi araldici di un ente territoriale o morale, con Decreto del Presidente della Repubblica, necessita:
– istanza, in carta semplice a firma del Sindaco o Presidente della Provincia, della Regione o dell’ente morale, diretta al sig. Presidente della Repubblica;
– istanza, in bollo a firma del Sindaco o Presidente della Provincia, della Regione o dell’ente morale, diretta al sig. Presidente del Consiglio dei Ministri;
– delibera del consiglio o della giunta comunale o provinciale, regionale, o dell’ente morale in copia conforme, di adozione o sostituzione dello stemma, del gonfalone e della bandiera, sulla scorta dello studio storico araldico degli emblemi, curato da un valido araldista, che forma parte integrante del deliberato;
– bozzetti dello stemma, del gonfalone e della bandiera eseguiti a colori su cartoncino bianco di cm. 37 per 26 con l’autentica del Sindaco o Presidente della Provincia, della Regione o dell’ente morale, nel retro dei bozzetti. I bozzetti dovranno essere previamente concordati con l’Ufficio Araldico della Presidenza del Consiglio dei Ministri, Roma;
– marca competente ad uso amministrativo, per ottenere la copia conforme del Decreto Presidente della Repubblica concessivo degli emblemi araldici;
– lettera di accompagnamento diretta alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, Ufficio Araldico, Roma, con l’elenco dei documenti di cui sopra.[/vc_column_text][/vc_tta_section][vc_tta_section title=”Sezione 7″ tab_id=”1459161332972-2c30f1d2-385f”][vc_column_text]
Amarezza proviamo, infine, per l’emblema assunto dalla Repubblica Italiana e dalla maggior parte delle regioni d’Italia, dove troviamo adottate delle insegne non rispettose dei relativi patrimoni storico-araldici.
Per emblema assunto dalla Repubblica Italiana ricordiamo che nel 1946, con la modifica della forma istituzionale dello Stato, l’Italia si ritrovò senza stemma e con la bandiera tricolore, “interzata in palo, di verde, di bianco e di rosso”, non più caricata dall’arme sabauda: “di rosso alla croce d’argento”, nel drappo di bianco.
Infatti, anche “se non mancano esempi di repubbliche che tutt’oggi innalzano gli stemmi di antichi dinasti, da secoli ormai intesi e sentiti come stemmi territoriali, la croce sabauda come stemma dello Stato italiano appare inequivocabilmente legata alla soluzione monarchica del Risorgimento nazionale. (…). Ma nel 1946 anche altri simboli sembrano politicamente improponibili, ‘bruciati’ dal loro uso ed abuso sotto il fascismo: l’aquila romana, la lupa e, fors’anche, lo scudo interzato in palo dei colori nazionali, che troppo freschi ricordi legano alla figura di cui era caricato ai tempi della ‘diarchia araldica’ (1927-1929) e, più tardi, della R. S. I. Né v’é spazio per la millenaria corona ferrea: le repubbliche stentano a distinguere fra corona sovrana e corona come segno di sovranità”.
“Nel primo provvedimento legislativo della Repubblica, il decreto legislativo del presidente del Consiglio dei ministri 19 giugno 1946, n. 1, relativo a ‘nuove formule per l’emanazione dei decreti ed altre disposizioni conseguenti alla mutata forma istituzionale dello Stato’, l’approvazione del nuovo ‘emblema’ dello Stato viene ricondotta dall’art. 7 alla competenza dell’Assemblea costituente”. 6)
Ma l’iter per la definizione e l’approvazione del nuovo segno distintivo repubblicano, risultò quanto mai faticoso.
Il presidente Terracini, all’Assemblea costituente, sostenne: “Sappiamo per (…) esperienza che ogni raffigurazione artistica incontra sempre plausi e critiche. Se riteniamo che possa divenire emblema della Repubblica soltanto quell’opera che raccolga il cento per cento dei voti, la nostra Repubblica non avrà mai un emblema. (…) Non è una cosa tragica: l’importante è che vi sia la Repubblica. Ma è anche necessario che la Repubblica abbia un proprio simbolo rappresentativo: (…). Questa è la ragione per cui ritengo di poter dire che (…) a un certo momento bisogna concludere, e che fra sei mesi potremo trovarci, in attesa di decidere sulla base di un consenso unanime, allo stesso punto di oggi (…)”.
“Per questo mi pare che dobbiamo porre un po’ il freno alle nostre ambizioni di bellezza. Credo che qualunque emblema, quando ci saremo abituati a vederlo riprodotto, finirà con l’apparirci caro; e questa è la cosa essenziale”. 7)
L’onorevole Conti, relatore all’Assemblea, associandosi al richiamo del Presidente Terracini, affermò: “Io non so che farmene dei simboli; a me interessa la Repubblica; il simbolo sia quello che sia: qualunque cosa. (…) Anche poco fa il collega Medi ha fatto pervenire un suo disegno che, evidentemente, risponde al suo sentimento: egli propone di adottare come simbolo la croce. I comunisti, naturalmente, vorrebbero la falce ed il martello; i socialisti vi aggiungerebbero il libro; il mio Gruppo vorrebbe l’edera; io personalmente proprio niente. (…) Insomma, io dico: decidiamo, non perdiamo tempo intorno a queste cose (…). Propongo, pertanto, che si respinga la proposta di rinvio e si passi ai voti”. 8)
E l’Assemblea approvò il nuovo emblema della Repubblica Italiana, ideato da P. Paschetto e scelto all’unanimità dalla Commissione Conti, il 31 gennaio 1948: “dopo una travagliata vicenda di due commissioni, due concorsi, con rispettivamente 637 e 197 disegni, peraltro in massima parte deludenti” 9) plaudendo, altresì, al Presidente Terracini per aver rivolto le seguenti parole all’onorevole Laconi: “ (…) quando Lei riceverà un foglio bollato, con sovraimpresso questo sigillo, Lei si preoccuperà del contenuto della carta bollata, non certo del disegno che vi è stampato (…)”. 10)
Necessitarono, però, altri tre mesi per perfezionare tutti gli atti formali, primo fra tutti la definizione del bozzetto ufficiale a colori, a cura dell’Ufficio di Presidenza dell’Assemblea costituente, scelto “(…) tra quattro (…) predisposti da Paschetto, dettando peraltro alcune modifiche: colore del nastro rosso bandiera; lettere dell’iscrizione ‘Repubblica Italiana’ in caratteri bianchi”. 11)
Infatti, l’emblema della Repubblica Italiana, comunicato al Governo, fu da questo approvato con deliberazione dell’8 aprile 1948. Figura così descritto nell’art. 1 del Decreto Legislativo 5 maggio 1948, n. 535, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 122 del 28 maggio 1948: “una stella a cinque raggi di bianco, bordata di rosso, accollata agli assi di una ruota di acciaio dentata, tra due rami di olivo e di quercia, legati da un nastro di rosso, con la scritta di bianco in carattere capitale Repubblica Italiana”. 12)[/vc_column_text][/vc_tta_section][vc_tta_section title=”Sezione 8″ tab_id=”1459161399652-e7f331d1-854b”][vc_column_text]Ci permettiamo ora di analizzare tale emblema sotto l’aspetto araldico, esaminando anche se le diverse figure che lo compongono siano tratte dal patrimonio iconologico e simbolico del nostro Paese.
Abbiamo usato il termine “emblema” e non “stemma” o “arme” perché l’emblema della repubblica non si può chiamare per la scienza araldica, stemma, mancando lo scudo, sul quale vanno caricati gli smalti e le figure né tanto meno arme mancando, oltre allo scudo, qualsivoglia ornamento esteriore araldico.
Quanto alla “stella”, alcuni studiosi la collegano alla ‘bella stella’ che adornava il capo di una bellissima donna vestita con abiti sontuosi, sedente sopra un globo, con nella mano destra uno scettro e nella sinistra una cornucopia, la testa coronata da torri e muraglie, sormontata da una fulgida stella, come appare nella Iconologia di Cesare Ripa (1560 – 1625), dove, appunto, l’Italia viene descritta e rappresentata allegoricamente come una donna formosa.
La stella a cinque punte, come noto, rappresenta il cosiddetto stellone d’Italia, largamente impiegato nel secolo scorso, in tutta la simbologia risorgimentale, spesso con la “spera”, ossia con raggi aggiunti tra le cinque punte, nella grande arme dello Stato e in numerosissimi emblemi di associazioni patriottiche e sodalizi.
Infatti, nello stemma del Regno d’Italia sanzionato dalla Consulta Araldica con deliberazione del 4 maggio 1870, che regolamenta “gli ornamenti esteriori dello Stemma dello Stato”, 13) la stella a cinque punte con la spera è posta sopra il colmo del padiglione reale, nell’assurda ed incomprensibile posizione di capovolta.
Nel nuovo stemma dello Stato “non vengono peraltro abbandonati gli ornamenti sino allora in uso, con riferimento alla dinastia (i leoni, tradizionali sostegni dello scudo sabaudo) o alla nazione (le bandiere tricolori); essi vengono fusi insieme, in quanto lo scudo pieno di Savoia viene sostenuto sì da due leoni, ma ‘essi leoni tenenti cadauno un guidone reale italiano’ (cioè un tricolore con lo stemma sabaudo nel bianco) ‘a lungo fusto, svolazzanti all’infuori’. Inoltre, posto lo scudo sotto un manto reale, movente dall’elmo cimato con la corona reale, ma ponendo il tutto a sua volta sotto un padiglione, il colmo di questo, ai cui lati garriscono, grazie al ‘lungo fusto’, i tricolori sostenuti dai leoni, si presenta libero per accogliere un nuovo simbolo: ‘una stella a cinque punte’ (ahimè capovolta) ‘d’argento, radiante d’oro’. Fa così ingresso nell’araldica ufficiale dello Stato italiano lo ‘stellone d’Italia’ ”. 14)
Vale la pena, al proposito, riportare anche l’annotazione di Aldo Pezzana, Presidente di sezione del Consiglio di Stato: “Solo nel 1890 si sentì, per iniziativa del Commissario del Re presso la Consulta Araldica, barone Antonio Manno, (storico ed insigne araldista), la necessità di mettere ordine negli stemmi e nei sigilli introdotti di fatto dopo il 1861, riconducendoli alle tradizioni araldiche e facendo scomparire il cosidetto ‘stellone d’Italia’, e cioè una stella a cinque punte, capovolta (ma in araldica le figure capovolte sono segno di fellonia!), introdotta (forse per influenza massonica) subito dopo l’Unità sopra il padiglione sormontante lo stemma dello Stato. Lo stemma venne descritto con il R.D. 1° gennaio 1890 (non pubblicato nella Gazzetta Ufficiale in quanto si volle sottolineare che il Re agiva quale Capo della Dinastia più che dello Stato), mentre lo stemma di Stato fu stabilito con il R.D. 27 novembre dello stesso anno”. 15)
Ladislao de Laszloczky, membro effettivo dell’Accademia Internazionale d’Araldica, ancora scrive: “Appena nel 1890, a quasi trent’anni dalla proclamazione del Regno d’Italia, vengono regolamentati per regio decreto sia gli stemmi della famiglia reale che quelli dello Stato”.
“A ciò risulta determinante l’opera della Consulta araldica, ristrutturata con r. d. 11 dicembre 1887, n. 5138, presso la quale l’incarico di commissario del re si trova affidato al barone Antonio Manno, storico e profondo conoscitore dell’araldica”.
“Questi, rimanendo in carica per circa vent’anni, lascerà un’impronta duratura: gli saranno infine dovuti anche il ‘Regolamento tecnico araldico’ (1905) ed il ‘Vocabolario araldico ufficiale’ (1906)”.
“Con il decreto del 1° gennaio 1890 – significativamente non pubblicato nella Gazzetta ufficiale, a sottolineare, nonostante la controfirma del presidente del Consiglio dei ministri, l’autonomia del sovrano dall’ordinamento dello Stato come capo della Casa reale – viene fissato innanzi tutto,(…) lo stemma del re”. 16)
“Successivamente, il 27 novembre dello stesso anno, il presidente del Consiglio dei ministri (dall’agosto 1887 Francesco Crispi) sottopone alla firma del re il decreto n. 7282, serie 3, che regola la foggia e l’uso dello stemma dello Stato, accompagnandolo con un’apposita relazione”. 17)
La doverosa ‘correzione’ del barone Antonio Manno, con l’eliminazione della stella a cinque punte capovolta dall’arme sabauda, diede luogo ad: “una vivace discussione alla Camera, il 4 marzo 1893 (ma l’interpellanza Stelluti – Scala che la promuove è del novembre precedente), discussione non priva d’ilarità, ove l’interpellante censura la scomparsa dallo stemma dello Stato della ‘stella d’Italia’, ch’egli ricollega tanto al motto di Carlo Alberto ‘j’attends mon astre’, che alla ‘stella’ di Giuseppe Mazzini e di Giuseppe Garibaldi, dipinta sui quadri, scolpita sui marmi e sui bronzi dei loro cento monumenti”. 18)[/vc_column_text][/vc_tta_section][vc_tta_section title=”Sezione 9″ tab_id=”1459161587940-06b8049f-e78c”][vc_column_text]Ricordiamo, inoltre, che la stella a cinque punte dal 13 dicembre 1871 è il simbolo inequivocabile dell’appartenenza alle Forze Armate dello Stato 19) ed è impiegata per blasonare il conseguimento di decorazioni al Valor Militare, venendo altresì largamente utilizzata nell’iconografia militare, in ispecie tardo ottocentesca, quale simbolo di gloria e di sublimi imprese; si vedano, al proposito le cartoline reggimentali nelle quali la stella a cinque punte viene rappresentata con la spera.
Il Bosio al riguardo testualmente recita: “alcuni studiosi hanno osservato che in molti eserciti stranieri le stellette, a cinque o sei od otto punte, erano usate quali distintivi di grado e che, quindi, la scelta della stella anche nel nostro Paese non avrebbe avuto alcun particolare significato. Altri hanno pensato, invece, ad un’origine risorgimentale del simbolo, ricordando che fin dai primi anni dell’800 l’Italia veniva rappresentata come una stella luminosa che indicava il cammino da percorrere per raggiungere l’unità e l’indipendenza. Nello stesso periodo era anche consuetudine raffigurare l’Italia come una donna giovane e formosa, recante una stella in fronte o sul capo coronato.
Altra interpretazione: l’origine delle stellette sarebbe collegata alla Massoneria, per il tramite delle società segrete del nostro primo periodo risorgimentale. Nella simbologia carbonara la stella aveva un posto preminente in quanto indicava la potenza divina che con la sua luce guida l’uomo attraverso le tenebre e la stella raggiante a cinque punte in Massoneria si trova sia nelle Officine simboliche sia nelle Camere superiori; essa è simbolo del retto costruire in quanto tracciata in conformità alla regola del numero d’oro, reca nel centro la lettera G, che nella filosofia massonica – secondo l’interpretazione più accreditata – sta a significare Geometria e quindi agire geometricamente (intendendo tale avverbio come ‘giustamente’)”. 20)
“La stella fiammeggiante della massoneria è chiaramente derivata dal pentagramma pitagorico (talvolta chiamato sigillo di Salomone), anche se questa designazione è più spesso riservata in pratica all’esagono stellato o scudo di Davide. La stella fiammeggiante a cinque punte è il simbolo della manifestazione centrale della Luce, del centro mistico, del fuoco di un universo in espansione. Tracciata fra la squadra e il compasso, cioè fra la Terra e il Cielo, essa rappresenta l’uomo rigenerato che irraggia come la luce nel mezzo delle tenebre del mondo profano. Nel grado di fratello della massoneria la stella fiammeggiante ha al centro la lettera G. E’ l’equivalente dello iod, il Principio divino nel cuore dell’iniziato (BOUM, GUET)”. 21)
Ci sia consentito a tal proposito di aggiungere che la stella a cinque punte, assieme alla squadra ed al compasso, rappresenta l’emblema primario del Grande Oriente d’Italia di Palazzo Giustiniani, Roma; parimenti la stella a cinque punte carica diversi scudi della scala massonica di rito scozzese antico ed accettato 22) e adorna in vari esemplari il collare del Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia di Palazzo Giustiniani, Piazza del Gesù, Roma. Araldicamente, infine, la stella a cinque punte si blasona anche scottish star (stella scozzese) o mullet (rotella dello sperone). 23)
Altra stella famosa è la stella a sei punte, meglio conosciuta come stella di David, formata da due triangoli equilateri che hanno lo stesso centro e che risultano piazzati in opposte direzioni ed usata in Italia nell’araldica ecclesiastica, dove maggiormente figurano però stelle a otto punte.
Si tramanda fosse la figura che adornava lo scudo del re David. Una diversa interpretazione le attribuisce, invece, un significato cabalistico. 24)
Ricordiamo che “Le armi portano con frequenza questo corpo celeste. Una stella fu guida sicura al nato Redentore, un’altra è sicura indicazione della strada a chi conduce la nave nella notte, due fatti che dovevano imporsi alla fantasia degli uomini quando vollero rappresentare la guida sicura verso il sicuro arrivo al porto spirituale od a quello materiale. Le stelle che splendono nel cielo della notte sono milioni di soli, altro simbolo di chi aspira a cose superiori, ad azioni sublimi. Avanti che sorga il sole, annunciatrice di questo e della luce, del giorno, della sua operosità, è la stella chiamata dagli antichi Lucifero, altra figurazione indicativa del luminoso avvenire auspicato alla propria discendenza”. 25)[/vc_column_text][/vc_tta_section][vc_tta_section title=”Sezione 10″ tab_id=”1459161637317-0ab40c75-ab00″][vc_column_text]Passando agli smalti presenti nella stella a cinque punte dell’emblema repubblicano, come appare descritto nell’art. 1 del Decreto Legislativo 5 maggio 1948, n. 535, notiamo che la stella è di bianco, bordata, meglio orlata, trattandosi di una ‘bordatura diminuita’, di rosso. Forti perplessità rappresentiamo per la stella smaltata di bianco, non figurando tale colore tra gli smalti araldici. Infatti, gli smalti fondamentali araldici sono il di rosso, il d’azzurro, il di verde, il di nero e il di porpora, mentre i metalli sono il di oro e il di argento e le pellicce sono il di vajo e di armellino o ermellino. Alcuni studiosi hanno ipotizzato che la stella risulta smaltata di bianco per non confonderla con la figura della ruota dentata che viene rappresentata d’acciaio; ma allora non si comprende l’orlatura di rosso della stella che serve proprio a demarcare le due figure, trovandosi la stella accollata alla ruota dentata. Altri suppongono che si siano voluti richiamare i colori nazionali con il di verde delle fronde dell’olivo e della quercia, il di bianco della stella e il di rosso della orlatura, ma anche tale ipotesi non ci soddisfa. Riteniamo invece, al di là di ogni altra possibile interpretazione, che, probabilmente, la stella appare di bianco nell’emblema repubblicano per la semplice non conoscenza delle regole araldiche da parte degli artefici dell’emblema.
“Sembra infine doversi notare come un altro degli ornamenti differenziatori dello stemma dello Stato, la stella a cinque raggi d’argento, introdotta nel 1870 dalla prima Consulta araldica sul colmo del padiglione fra i guidoni tricolori, ricompaia poi, settantotto anni più tardi, quasi per un curioso destino, quale figura base dell’emblema della repubblica”. 26)
Invece “la stella a cinque punte non ricomparve, settantotto anni più tardi, quasi per un curioso destino” ma, come si disse allora, perché il Partito Comunista Italiano pensava alla stella bolscevica e la volle pertanto con il bordo rosso per estenderlo in seguito a tutta la stella, adeguandola a tutte le stelle rosse in auge allora oltre la ‘cortina di ferro’, mentre i monarchico-liberali si richiamavano alla stella massonica risorgimentale.
In Italia, nelle elezioni del 28 aprile 1948, i socialcomunisti si presentarono uniti nel ‘Fronte popolare’ con il simbolo dell’effigie di Giuseppe Garibaldi accollata alla stella a cinque punte di rosso, mentre l’emblema primario del Partito Comunista Italiano era la falce, il martello e la stella a cinque punte. L’argomento aveva ispirato le vignette e le battute del celebre Giovanni Guareschi.
“Per quanto molto criticato, il nuovo emblema, che sovrappone la stella ad una ruota dentata, si presenta in una certa sintonia con l’art. 1 della Costituzione in vigore dal 1° gennaio 1948, che proclama: ‘L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro’”, 27) anche se, a nostro avviso, sempre nel 1948, il settore industriale era di gran lunga meno rappresentativo del settore agricolo. Ma la ruota era ‘operaia’ ed il Partito Comunista Italiano come il Partito Comunista russo era operaista, non contadino e sostenitore della classe agricola; i contadini, nel 1948, aderivano invece alla ‘COLDIRETTI’ di chiara fede democristiana.
Per la ruota di acciaio dentata, il 6 febbraio 1948 il Consigliere delegato della S. A. Costruzioni Meccaniche Riva Guido Ucelli indirizzava al Ministro dell’Industria onorevole Roberto Tremelloni una lettera ove, tra l’altro, scriveva: “(…) se un allievo di una prima classe di una scuola industriale presentasse un disegno analogo sarebbe senz’altro bocciato. La dentatura caratteristica è stata infatti trasformata in sporgenze prive di ogni funzionalità e i raggi sono disegnati esattamente al contrario, e cioè con la sezione maggiore alla periferia anziché al mozzo (…)”.
Per la descrizione dei “due rami di olivo e di quercia, legati da un nastro di rosso, con la scritta di bianco in carattere capitale Repubblica Italiana”, ci sia concesso, inoltre, osservare che la blasonatura risulta orfana dello smalto dei rami e delle foglie, non risultando nel Decreto nessuna indicazione. Era opportuno, invece, blasonare “ due rami di olivo e di quercia al naturale, fogliati di verde”. Il “legati da un nastro di rosso”, poi, era meglio sostituirlo con “decussati alle estremità e legati da un nastro di rosso”.[/vc_column_text][/vc_tta_section][vc_tta_section title=”Sezione 11″ tab_id=”1459161688669-8e153ccf-c486″][vc_column_text]Per l’emblema repubblicano sappiamo che la blasonatura era stata predisposta dall’Ufficio Araldico della Presidenza del Consiglio dei Ministri, su richiesta del Gabinetto, la quale però non corrisponde con quella recepita, poi, nel Decreto Legislativo 5 maggio 1948, n. 535. Ad esempio, i “due rami di olivo e di quercia” presenti nel Decreto, nella descrizione dell’Ufficio Araldico erano, invece, “due rami di quercia e di alloro”. Infatti, con nota del 1° aprile 1948, a giustificazione, il Cancelliere della Consulta Araldica conte Tosi, così scriveva: “(…) occorre avvertire che la corona si è definita di quercia e di alloro, mentre le foglie del così detto alloro parrebbero di ulivo, ma si ritiene doveroso segnalare che la corona di quercia e di alloro ha il significato nei simboli di gloria eterna, mentre la corona di ulivo e di quercia potrebbe avere il significato funerario di pace eterna”.
Da quanto riportato, però, nel Decreto Legislativo si ha la certezza che le giuste osservazioni del Cancelliere non vennero tenute in alcun conto.
Inoltre, “i vincoli che univano la Consulta araldica alla Corona e il disinteresse che la Repubblica intese subito mostrare per le situazioni nobiliari indussero i costituenti a sancirne la soppressione, che peraltro fu adottata con una formula infelice”. 28)
In ultima analisi, l’emblema della repubblica ci sembra la risultanza di frettolosi compromessi intervenuti fra le varie ideologie presenti nell’Assemblea costituente, nell’incertezza, probabilmente, che la presentazione di una vera arme avrebbe potuto rievocare i simboli del recente passato monarchico e di conseguenza adombrare qualche timorosa coscienza. Sicuramente, però, non è il frutto di una scelta serena e rispettosa del patrimonio araldico del nostro Paese.
E giustamente Giacomo C. Bascapè affermava che: “(…) l’affrettata ideazione dello stemma della Repubblica, che intendeva esprimere il valore degli ideali su cui essa si fonda, ha creato un’insegna priva di caratteri e di stile araldico”. 29)
Nel 1987 con il Decreto Presidente del Consiglio dei ministri del 2 marzo, in Gazzetta Ufficiale, 13 marzo 1987, n. 60, venne promosso un pubblico concorso “per l’innovazione dell’emblema della repubblica italiana”, ma i risultati sono stati quanto mai deludenti, come si apprende dalle cronache dell’epoca, con disegni e bozzetti irriconducibili alle norme araldiche. 30)
L’emblema, poi, nelle varie raffigurazioni ufficiali, in bianco e nero, viene tuttora stranamente rappresentato con la ruota di acciaio dentata, fitta di linee orizzontali; parimenti si osservano numerosi emblemi repubblicani anche con gli interstizi dei raggi della ruota di acciaio dentata, caricati sempre da fitte linee orizzontali.
In araldica, infatti, esistono dei segni convenzionali per indicare gli smalti quando lo stemma viene riprodotto nei sigilli e nelle stampe in bianco e nero. Così il rosso si rende con fitte linee perpendicolari, l’azzurro con orizzontali, il verde con diagonali da sinistra a destra, il porpora con diagonali da destra a sinistra, il nero con orizzontali e verticali incrociate, mentre l’oro si rende con fitto punteggio e l’argento senza alcun segno.
Ne consegue che qualsiasi araldista, descrivendo l’emblema della Repubblica, riprodotto in bianco e nero, blasonerà “la stella a cinque punte, le fronde di olivo e di quercia ed il nastro” d’argento, risultando tali figure senza alcun segno, mentre la “ruota d’acciaio dentata”, compresi gli interstizi dei raggi, qualora anch’essi figurino con fitte linee orizzontali, d’azzurro, risultando su tale figura riportato il tradizionale segno convenzionale araldico per descrivere lo smalto d’azzurro.
Altra curiosità ci sembra il colore dell’emblema presente nella carta da lettere dei Ministri, Segretari di Stato che figura stranamente, tutto di rosso, pur con la ruota dentata con fitte linee orizzontali.[/vc_column_text][/vc_tta_section][vc_tta_section title=”Sezione 12″ tab_id=”1459161749528-a39bb5c6-435e”][vc_column_text]Passando, infine, allo stendardo presidenziale, ricordiamo che “L’insegna del presidente della Repubblica, adottata nel febbraio 1948 al posto dello stendardo reale, e costituita, provvisoriamente, dal tricolore nazionale, fu sostituita, diciassette anni dopo, con uno stendardo azzurro, di forma quadrata con al centro lo stemma della Repubblica. Di tale provvedimento è fatta menzione nel F. O. n. 76 in data 22 settembre 1965”. 31)
Poi: “nel 1986 fu istituito uno stendardo per il presidente della Repubblica supplente. Tale stendardo è simile a quello del presidente effettivo, ma anziché azzurro, è bianco, con cornice azzurra; inoltre, lo stemma dello Stato, anziché essere color oro, è color argento”. 32)
“Lo stendardo del presidente della Repubblica è stato, di recente, nuovamente modificato. Con D.P.R. in data 22 marzo 1990 è infatti entrato ufficialmente in uso il nuovo stendardo in sostituzione di quello azzurro con stemma di Stato. Esso consiste nella Bandiera Nazionale a bordo completo azzurro alto un sesto della lunghezza del tricolore”. 33)
Con il successivo D.P.R. 29 giugno 1992 si è ritornati, però, alla precedente insegna del 1965, con il drappo d’azzurro caricato dall’emblema dello Stato, il tutto d’oro. 34)
Lo stendardo del Presidente della Repubblica è stato nuovamente modificato con il D.P.R. 9 ottobre 2000, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 241 del 14 ottobre 2000.
Il Decreto così recita: “L’insegna di comando del Presidente della Repubblica è costituita da uno stendardo la cui foggia, quadrata, è conforme al modello allegato”. 35)
Sempre nella Gazzetta Ufficiale appare anche la descrizione araldica dello stendardo, come segue: “di rosso, bordato d’azzurro, al grande rombo appuntato ai lembi, di bianco, caricato dal carello di verde appuntato ai margini del rombo, esso carello sopraccaricato dall’emblema della Repubblica italiana d’oro”. 36)
Con il D.P.R. 17 maggio 2001, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 117 del 22 maggio 2001, si è creata, invece, l’insegna distintiva per gli ex Presidenti della Repubblica; il Decreto così recita: “L’insegna distintiva degli ex Presidenti della Repubblica è costituita da uno stendardo la cui foggia, quadrata, è conforme al modello allegato”. 37)
Sempre nella Gazzetta Ufficiale appare anche la descrizione araldica della nuova insegna, come segue: “Inquartato: nel I e IV di verde, nel II e nel III di rosso, al grande rombo appuntato ai lembi di bianco, esso rombo caricato dalla Cifra d’Onore della Presidenza della Repubblica, di cui al D.P. 14 ottobre 1986, n. 19/N”. 38)
Come abbiamo già osservato, l’art. 1 del Decreto Legislativo 5 maggio 1948, n. 535, recita, invece, che l’emblema della Repubblica si compone: “di una stella a cinque raggi di bianco, bordata di rosso accollata agli assi di una ruota di acciaio dentata, tra due rami di olivo e di quercia, legati da un nastro di rosso, con la scritta di bianco in carattere capitale Repubblica Italiana”.
Non si riesce, di conseguenza, a comprendere perché l’emblema ufficiale dello Stato, quando viene caricato sul drappo dello stendardo presidenziale, perda i suoi smalti, per assumerne uno solo, il “di oro”, smalto questi, peraltro, non presente nella blasonatura del Decreto Legislativo 5 maggio 1948, n. 535, istitutivo dell’emblema repubblicano.
Eguali considerazioni valgono per lo stendardo del presidente supplente, con drappo di bianco con cornice azzurra, caricato dall’emblema della Repubblica, d’argento. Mentre non riusciamo veramente a capire il motivo del drappo di bianco, rileviamo che la ‘cornice azzurra’ in effetti è la bordatura d’azzurro del drappo, senza contare che in questo vessillo lo stemma repubblicano assume un nuovo smalto, il d’argento, smalto, anche questo, assolutamente non presente nella blasonatura del più volte citato Decreto Legislativo 5 maggio 1948, n. 535.
Esaminando gli stendardi reali, abbiamo osservato, invece, che “Nuovi stendardi per il Sovrano e per i Principi vennero adottati nel 1880 con R. D. del 28 novembre. Sopprimendo le insegne fino allora in uso, il Decreto stabiliva che lo stendardo reale doveva essere: ‘di colore azzurro e di forma quadrata, portante nel mezzo un’aquila coronata e fregiata dello scudo di Savoia, contornata dal collare della SS. Annunziata, ed avrà a ciascuno degli angoli una corona reale’ ”. 39)
Analizzando tale stendardo reale, osserviamo che il drappo è d’azzurro (smalto per eccellenza sabaudo), caricato con l’aquila coronata e fregiata dello scudo dei Savoja, che altro non è se non l’aquila nera di Savoja antica, con in cuore lo scudetto di Savoja moderna, di rosso alla croce d’argento. Il collare dell’Ordine Supremo della Ss. ma Annunziata che contorna l’aquila figura dorato e gemmato, mentre nei cantoni sono caricate quattro corone reali sabaude d’oro, foderate di rosso.
“Identico come disegno, ma privo delle corone reali e con battente tagliato a coda di rondine, era il ‘gagliardetto dei reali principi’. Stendardo e gagliardetto rimasero immutati fino al 1946, quando cambiò la forma istituzionale dello Stato”. 40)
Ne consegue, nel pieno rispetto della migliore tradizione araldico-vessillologica, che un’arme od un emblema, quando vengono caricati nel drappo di una bandiera, conservano inalterati gli smalti e le figure previste nell’arme o nell’emblema originari.[/vc_column_text][/vc_tta_section][vc_tta_section title=”Sezione 13″ tab_id=”1459162094916-939e7b71-153c”][vc_column_text]
Passando ora ad esaminare gli emblemi della Regione del Veneto che caricano per figura araldica il leone di San Marco, ricordiamo che il Consiglio Regionale del Veneto, il 20 maggio 1975, ha approvato la legge n. 56, per oggetto “Gonfalone e stemma della regione”.
La legge così recita:
Art. 1
I simboli ufficiali della Regione del Veneto sono:
lo stemma;
il gonfalone;
il sigillo.
Art. 2
Lo stemma della Regione di cui al bozzetto allegato A) che forma parte integrante della presente legge, è costituito dalla rappresentazione del territorio regionale con il mare, la pianura e i monti.
In primo piano è raffigurato il leone di S. Marco; nel cielo è apposta lungo una stessa linea l’iscrizione: Regione del Veneto.
Art. 3
Il gonfalone della Regione di cui al bozzetto allegato B) che forma parte integrante della presente legge è di colore rosso pompeiano; esso presenta al centro lo stemma di cui all’articolo precedente e termina con sette fiamme che portano ciascuna, nella parte mediana lo stemma di una delle città capoluogo di provincia della Regione.
La bandiera è costituita dagli stessi elementi di cui al comma precedente con lo stemma ruotato di 90 gradi.
All’innesto del puntale sull’asta del gonfalone e della bandiera è annodato un nastro tricolore, verde, bianco, rosso.
Art. 4
Il sigillo della Regione, di cui al bozzetto allegato C) che forma parte integrante della presente legge è di forma circolare; al centro riporta il leone di San Marco raffigurato nello stemma, e in corona la dicitura “Regione del Veneto” con l’indicazione dell’Organo Regionale cui il sigillo è assegnato.
Art. 5
Il sigillo è assegnato:
al Consiglio regionale;
alla Giunta regionale;
al Presidente della Giunta regionale;
al Comitato e alle Sezioni di Controllo.
Esso deve essere apposto in calce a tutti gli atti ufficiali emanati dagli organi regionali sopraelencati.
Art. 6
Della tenuta dei sigilli sono responsabili i dipendenti regionali che hanno la direzione degli uffici cui i sigilli medesimi sono assegnati.
Art. 7
La raffigurazione del sigillo della Regione deve essere stampata su tutta la carta da lettere destinata alla corrispondenza esterna compresa quella destinata al funzionamento dei gruppi consiliari.
Parimenti il sigillo della regione deve apparire sul frontespizio del “Bollettino Ufficiale della Regione” e su ogni tabella indicante gli uffici della Regione.
Per quanto sopra avevamo più volte chiesto alla Regione del Veneto 41) di conoscere:
perché nella predetta Legge regionale 20 maggio 1975, n. 56, il titolo della legge parla di “Gonfalone e stemma della regione” e non invece di “Stemma, Gonfalone, bandiera e sigillo della regione”, visto che all’art. 1 della citata legge si recita che i simboli ufficiali della Regione del Veneto sono a) lo stemma; b) il gonfalone; c) il sigillo, dimenticando, comunque e stranamente, la bandiera, citata, però, al successivo art. 3, in considerazione del fatto che parlando di emblemi araldici, si cita sempre per primo lo stemma, che verrà poi caricato nei vessilli e si elencano poi gli altri emblemi;
perché negli articoli 2, 3 e 4 descrivendo lo stemma, il gonfalone, la bandiera ed il sigillo della regione, viene omessa la “blasonatura” ossia la descrizione araldica dei predetti emblemi, dando così l’impressione che esista quasi il timore di descrivere correttamente, secondo il “Vocabolario Araldico Ufficiale”, i simboli riconoscitivi della nostra Comunità regionale;
perché nell’art. 2 non è stata adottata la forma di scudo appuntata; Il Regolamento tecnico araldico della Consulta Araldica del regno d’Italia, approvato con Regio Decreto 13 aprile 1905, n. 234, opera dell’insigne araldista sen. Antonio Manno, commissario del Re presso la Consulta Araldica, prescrive, infatti, all’art. 6, che la foggia normale dell’arme, sia quella appuntata. Tale foggia viene anche confermata dall’art. 59 del Regolamento per la Consulta Araldica del Regno, approvato con il Regio Decreto 7 giugno 1943, n. 652 e tuttora vigente;
perché nell’art. 2 manca qualsiasi indicazione degli smalti araldici dello scudo, non comprendendosi, così, i vari colori che compongono l’emblema;
perché lo stemma e la bandiera portano caricata l’iscrizione REGIONE del VENETO;
perché nell’art. 3, parlando del gonfalone, l’unico smalto citato è il “rosso pompeiano”, quando, invece, secondo la scienza araldica si deve parlare solo di “rosso”;
perché, sempre nell’art. 3, per la bandiera si descrive che “è costituita dagli stessi elementi di cui al comma precedente con lo stemma ruotato di 90 gradi”, quando, invece, lo stemma non figura presente, non risultando caricato lo scudo con i previsti smalti e figure araldiche;
perché, sempre per la bandiera, si usa la terminologia: “con uno stemma ruotato di 90 gradi”, quando, invece, secondo la disciplina araldica, “lo stemma va solo caricato nel drappo”;
perché all’art. 7 si recita che “La raffigurazione del sigillo della Regione deve essere stampata su tutta la carta da lettere destinata alla corrispondenza esterna compresa quella destinata al funzionamento dei gruppi consiliari. Parimenti il sigillo della regione deve apparire sul frontespizio del “Bollettino Ufficiale della Regione” e su ogni tabella indicante gli uffici della Regione.”, quando, invece, nella carta da lettere della Regione destinata alla corrispondenza esterna compresa quella destinata al funzionamento dei gruppi consiliari e nelle tabelle indicanti gli uffici della Regione, appare invece lo stemma previsto nell’art. 2;
perché lo stemma ed il sigillo quando vengono rappresentati in bianco e nero non portano i prescritti segni tradizionali indicanti gli smalti;
perché lo stemma regionale non figura timbrato da una corona, come, invece, a titolo d’esempio, ha fatto la Regione Valle d’Aosta.
Infatti, nell’araldica civica rientrano, di norma, gli stemmi dei Comuni, Città, Province, Regioni, Fondazioni, Comunità, Opere Pie. Preme però anche precisare che le Regioni, essendo sorte dopo l’emanazione dei RR. DD. 7 Giugno 1943 nn. 651 e 652 che regolamentano l’araldica, non dispongono legalmente di corone. Ma l’Ufficio Araldico istituito presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, ha previsto per tale tipo di ente una corona d’oro all’antica, come si evince, ed è stato già ricordato, dalla concessione dello stemma alla Regione Autonoma della Valle d’Aosta, il cui Decreto Presidente della Repubblica 13 luglio 1987 concessivo così recita Stemma: di nero, al leone d’argento, linguato e armato di rosso; alla bordatura diminuita, d’oro. Lo stemma è sormontato da corona d’oro, formata da un cerchio brunito, gemmato, cordonato ai margini, sostenente quattro alte punte di corona all’antica (tre visibili) alternate da otto basse punte, ugualmente all’antica (quattro visibili, due e due).
Perché non si è previsto, infine, il riconoscimento dei nostri emblemi regionali, al pari di altre regioni, con Decreto Presidente della Repubblica.
[/vc_column_text][/vc_tta_section][vc_tta_section title=”Sezione 14″ tab_id=”1459162212519-255208c1-19aa”][vc_column_text]Caduto nel vuoto, quindi, l’auspicio dell’insigne araldista Giacomo Bascapè che nel 1983, nella sua monumentale opera Insegne e simboli, araldica pubblica e privata medioevale e moderna, edita dal Ministero dei Beni Culturali, affermava: “E speriamo che le regioni, quando adotteranno gonfaloni e stemmi, non si rivolgano a disegnatori inesperti d’araldica e non chiedano ad essi di simboleggiare ‘l’industria e il progresso’ (come una regione intende fare) ma si comportino come il Piemonte che ha assunto uno scudo storicamente ed araldicamente perfetto”.
Arrigo Pecchioli, nella prefazione alla ristampa anastatica del Vocabolario Araldico Ufficiale del sen. Antonio Manno, commissario del re presso la Consulta Araldica e stampato a Roma nel 1907, parlando degli stemmi assunti dalle Regioni italiane, testualmente asseriva che, tranne poche eccezioni, “sono araldicamente degli scarabocchi indecifrabili e indescrivibili”. Per lo stemma della Regione del Veneto, in particolare, scriveva, “del quale non si capisce, però, la scritta su un’arme tanto famosa e celebre”.
Massimo Sgrelli, capo del cerimoniale di Palazzo Chigi, nella sua recente pubblicazione Il cerimoniale moderno e il protocollo di Stato, nel capitolo Araldica annota: “è utile segnalare che alcune amministrazioni regionali e locali, giudicando l’argomento dell’araldica delle proprie insegne rientrante nella propria sfera di autonomia, hanno scelto e deliberato insegne, bandiere e gonfaloni con criteri del tutto estranei ai canoni araldici, i quali sono espressione di precisi concetti e valori fra loro collegati e ordinati. La Regione Lombardia, ad esempio, ha scelto come proprio simbolo la rosa camuna, che è certamente un simbolo lombardo storico tipico ma che non ha alcun connotato araldico e, detto fra noi, contraddistinguerebbe meglio una marca di benzina o una catena di supermercati. Faccio perciò espresso invito, per amore di patria, a ricorrere in materia al competente ufficio araldico della Presidenza del consiglio dei ministri”.
Si evidenzia però che con l’art. 52 della Legge regionale 22 febbraio 1999 per oggetto: Provvedimento generale di rifinanziamento e di modifica di leggi regionali per la formazione del bilancio annuale e pluriennale della Regione (legge finanziaria 1999), si è sostituito l’art. 2 della Legge regionale 20 maggio 1975, n. 56 per oggetto: “Gonfalone e stemma della regione”, con il seguente: “Lo stemma della Regione, di cui al bozzetto allegato A) che forma parte integrante della presente legge, è costituito dalla rappresentazione del territorio regionale con il mare, la pianura e i monti. In primo piano è raffigurato il leone di S. Marco”, omettendo così nel nuovo articolo la dicitura: “nel cielo è apposta lungo una stessa linea l’iscrizione: Regione del Veneto”.
Va dato, quindi, atto al Consiglio Regionale del Veneto di aver soppresso tale iscrizione dallo stemma, dietro richiesta di un Gruppo consiliare che aveva fatta propria una delle nostre osservazioni, pur senza citarne l’autore, in quanto è lo stemma, attraverso gli smalti e le figure in esso caricate, che identifica la comunità.
Aggiungiamo infine che la nostra Regione ha il dovere ed il diritto di avere dei simboli rispettosi del proprio patrimonio storico-araldico, in presenza di un arme, tra le più famose e celebri.[/vc_column_text][/vc_tta_section][vc_tta_section title=”Sezione 15″ tab_id=”1459162325682-d50239ac-2d68″][vc_column_text]Passando alle Provincie ricordiamo che la Provincia di Venezia in data 11 gennaio 2002 ha ottenuto con D. P. R. la concessione della bandiera. Tale particolare, ambita insegna sembrerebbe la prima concessa dall’avvento della Repubblica.
Esaminando ora le insegne araldiche del comune di Venezia preme evidenziare che l’ordinanza leontoclasta del 29 maggio 1797 (diciassette giorni dopo la caduta della Serenissima) così recitava: “La Municipalità Provvisoria di Venezia, udito il rapporto del suo Comitato di Salute Pubblica, considerato che in ogni uomo libero dee giustamente destare il più alto orrore il continuare a vivere sotto le antiche insegne della tirannia, decreta che tutti que’ leoni che considerati sono come stemmi, o indicazioni del passato Governo, sieno levati da tutti i luoghi ove esistono”.
Nella furia iconoclasta che ne seguì, vennero distrutti nella sola città di Venezia, ad opera di ‘tagiapiera’ assoldati, oltre mille leoni; parimenti in terraferma, esclusa l’Istria, i leoni scalpellati furono oltre quattromila.
Tra i pochi leoni che sopravvissero alla leontoclastia giacobina ricordiamo il leone marciano posto sopra il portale d’ingresso dell’Arsenale, quello sulla famosa Torre dell’orologio in piazza San Marco ed il Leone posto sopra la porta d’ingresso della città di Portobuffolè, nel trevigiano. Tali leoni si salvarono solo perché vennero “democratizzati” i loro libri con la nuova iscrizione “DIRITTI E DOVERI DELL’UOMO E DEL CITTADINO” al posto della secolare iscrizione “PAX TIBI MARCE EVANGELISTA MEUS”. Ed il gondoliere veneziano conierà in quei tempi il famoso detto “el leon ga voltà pasena”, ossia “il leone ha girato pagina”. Nel tempo i leoni dell’Arsenale e della Torre dell’orologio riacquisteranno la loro primitiva iscrizione “PAX TIBI MARCE EVANGELISTA MEUS”.
Nel successivo 1806, con decreto del 5 febbraio, il viceré Eugenio Beauharnais istituì il Municipio di Venezia mentre il giorno 18 dello stesso mese venne assunto lo stemma il cui scudo caricava le arme degli stati formanti il regno italico, accollato all’aquila napoleonica.
Dall’anno 1807 sino al 1812 il Comune usò, invece, un’emblema che riportava il leone marciano coronato, impugnante con la zampa anteriore destra una spada, il tutto accollato all’aquila napoleonica.
Con la patente italica 22 febbraio 1813, venne, invece, conferito al Municipio una nuova insegna che durò fino alla caduta del governo francese nel 1814; stemma che non ricordava per nulla l’antico simbolo di Venezia.
Dopo alterne vicende nel 1825 l’Austria decretò un nuovo stemma che rimarrà in uso sino al 16 settembre 1866, salvo il periodo insurrezionale del 1848-49, e che consisteva nel leone alato, accovacciato, col libro e motto, in campo azzurro; lo scudo poi risultava timbrato dalla corona ducale a fioroni e accollato, all’aquila bicipite imperiale austriaca.
Con l’insurrezione del 1848, infatti, venne adottata, con decreto del 27 marzo, la seguente insegna: “La bandiera della Repubblica Veneta è composta dei tre colori verde, bianco e rosso; il verde al bastone, il bianco nel mezzo, il rosso pendente. In alto, in campo bianco, fasciato dai tre colori, il Leone giallo. Coi tre colori, comuni a tutte le bandiere odierne d’Italia, si professa la comunione italiana. Il Leone è simbolo speciale di una delle italiane famiglie”. 42)
Con il ricongiungimento di Venezia all’Italia, il re Vittorio Emanuele II decorò l’11 novembre 1866 la bandiera che era stata scelta da una speciale commissione l’8 novembre 1866 e che raffigurava il tricolore italiano a stole di seta rossa con leone d’oro ai capi. 43)
Negli anni successivi le varie Giunte municipali nominarono delle Commissioni per proporre lo stemma della città di Venezia e nella seduta del Consiglio comunale del 15 dicembre 1879 venne approvato, a maggioranza, l’emblema proposto che così recita: “Lo stemma del Comune di Venezia viene stabilito in uno scudo azzurro, col leone posto in maestà, ossia di fronte, alato e nimbato d’oro, tenente nelle branche un libro aperto del medesimo metallo, in cui sarà scolpito in lettere nere il motto: PAX TIBI MARCE EVANGELISTA MEUS”.[/vc_column_text][/vc_tta_section][vc_tta_section title=”Sezione 16″ tab_id=”1459168220516-fb0e0905-55ec”][vc_column_text]Per la bandiera, invece, la Commissione di esperti si era pronunciata “favorevole per lo stendardo nautico usato dalla Veneta repubblica, il Leone d’oro andante in campo rosso”, 44) ma la Giunta propose di adottare come bandiera del Comune di Venezia “la bandiera tricolore nazionale in tre campi, verde all’asta, bianco in mezzo e rosso all’aria. Per tutto il campo verde in larghezza e per un terzo della sua altezza verrà inquartato un Leone d’oro passante con libro e spada in campo rosso”. 45)
Anche tale proposta venne approvata dal Consiglio comunale a maggioranza.
Per tale bandiera, nel 1886, l’araldista Cecchetti scrisse che il Commissario del Re presso la Consulta araldica, con nota del 5 gennaio 1886, riteneva il vessillo scelto dal comune di Venezia “irregolare, per riguardo all’arte araldica, e vizioso, relativamente all’estetica e faceva voti che per la regolarità e per la bellezza del simbolo, vi si introducano modificazioni consone alle buone regole dell’araldica, concordi coll’estetica, ed improntate allo studio ed alle risultanze dei monumenti e delle tradizioni”. 46)
Venne, di conseguenza, nominata un’altra Commissione “coll’incarico di studiare l’argomento nei riguardi storici ed artistici e di fornire così elementi sicuri per le proposte da presentare al Consiglio comunale”, 47) ma nessun provvedimento venne nel tempo preso.
Nel 1933, per simboleggiare l’indissolubile unione degli enti territoriali con il regime fascista, venne previsto negli stemmi civici il capo del littorio con il R.D. 24 ottobre 1933, n. 1440, che così recita: “di rosso (porpora) al fascio littorio d’oro, circondato da due rami di quercia e di alloro, annodati da un nastro dai colori nazionali”.
Ricordiamo, a tal fine, che il capo, araldicamente è una pezza onorevole, a larga fascia, che occupa la terza parte superiore dello scudo.
Per adeguarsi alle nuove norme araldiche il Podestà di Venezia, il 12 settembre 1938 rivolse, di conseguenza, istanza al Capo del Governo al fine di ottenere il riconoscimento, con il previsto capo del Littorio, dello stemma, del sigillo, del gonfalone e della bandiera civica.
Il successivo 1° maggio 1942 vedrà la luce il Decreto del Capo del Governo, concessivo degli emblemi, che così recita:
1) Spettare alla Città di Venezia il diritto di fare uso dello stemma, del sigillo, del gonfalone e della bandiera, descritti come appresso:
STEMMA: D’azzurro al leone d’oro, posto in maestà (in “moleca”, ossia a guisa di granchio), alato e nimbato d’oro, tenente fra gli artigli il libro aperto dell’Evangelo su cui sta scritto, a lettere nere, il motto: “Pax tibi Marce Evangelista meus”.
Capo del Littorio; di rosso (porpora) al Fascio Littorio d’oro circondato da due rami di quercia e d’alloro annodati da un nastro dai colori nazionali. Lo scudo, di forma veneta, sarà cimato del corno dogale cinto da corona a fioroni.
SIGILLO: Il leone di S. Marco dello stemma affiancato da due fasci littori, con la leggenda “Città di Venezia”.
GONFALONE: Drappo di colore rosso, seminato di stelle d’oro, al leone di S. Marco passante d’oro, con le zampe anteriori, di cui la destra con il libro dell’Evangelo, poggianti sulla terra, da cui si erge una fortezza e con le posteriori nell’acqua. Intorno al drappo una bordura con fregi d’oro e immagini sacre rappresentanti i quattro evangelisti, l’Annunciazione e la Sacra Colomba. Il drappo terminerà con sei code ornate di simboli di guerra.
BANDIERA: Drappo interzato in palo, di verde, di bianco e di rosso col campo verde caricato di un quadrato rosso al leone di S. Marco d’oro passante.
2) Doversi prendere nota del presente provvedimento nel Libro Araldico degli Enti Morali.
Roma, addì 1° maggio 1942 XX. 48)
Il Capo del Littorio verrà poi abolito con il Decreto Legislativo Luogotenenziale, 26 ottobre 1944, n. 313. Ma molti Enti, tra i quali il comune di Venezia, ignorando probabilmente l’esistenza di tale Decretotivo Luogotenenziale, hanno tolto, alla caduta del fascismo, solo “il fascio littorio d’oro, circondato da due rami di quercia e di alloro, annodati da un nastro dei colori nazionali”, mantenendo invece il capo di rosso, ritenendo, a torto, che tale pezza appartenesse, invece, all’arme dell’Ente e non all’emblema araldico del fascismo.[/vc_column_text][/vc_tta_section][vc_tta_section title=”Sezione 17″ tab_id=”1459168787628-41990e26-14e8″][vc_column_text]Nel successivo 1993 l’araldista Giorgio Aldrighetti indirizzava delle osservazioni al comune di Venezia, 49) sostenendo che gli emblemi araldici in uso presso quella amministrazione risultavano errati.
Per quanto sopra con deliberazione della Giunta Comunale di Venezia n. 1064 del 30 marzo1995 veniva affidata la cura dell’istruttoria araldica a Giorgio Aldrighetti, dell’istruttoria storica a Mario De Biasi e la preparazione dei bozzetti a Sandro Nordio.
Il successivo 6 novembre 1996 vedrà la luce il Decreto Presidente della Repubblica concessivo dello stemma e del gonfalone alla città di Venezia.
Tale Decreto, trascritto nel Registro Araldico dell’Archivio Centrale dello Stato in data 26 novembre 1996 e registrato nei registri dell’Ufficio Araldico in data 30 novembre 1996, Registro anno 1996, pag. 86, porta le seguenti blasonature:
STEMMA: D’azzurro, al leone d’oro, alato e nimbato dello stesso, con la testa posta di fronte, accovacciato, tenente fra le zampe anteriori avanti al petto il libro d’argento, aperto, scritto delle parole a lettere maiuscole romane di nero PAX TIBI MARCE, nella prima facciata in quattro righe, ed EVANGELISTA MEUS nella seconda facciata, similmente in quattro righe. Lo scudo di forma veneta sarà timbrato dal corno dogale.
GONFALONE: Drappo di rosso con la bordatura dello stesso, bordata da filetti d’oro interni ed esterni incrociantisi negli angoli, e caricata da ricami d’oro e da quattro sfere armillari, d’azzurro e d’oro, una in capo, una in punta, due nei fianchi; il drappo sarà caricato dallo stemma della città con la iscrizione centrata in oro: CITTÀ DI VENEZIA. Il drappo sarà ornato nella parte inferiore da sei strisce rettangolari di rosso, orlate da filetti d’oro, caricate da ricami dello stesso, alte circa un terzo dell’intero drappo. Le parti di metallo ed i cordoni saranno dorati. L’asta verticale sarà ricoperta di velluto rosso, con bullette dorate poste a spirale. Nella freccia sarà rappresentato lo stemma della Città e sul gambo inciso il nome. Cravatta con nastri tricolorati dai colori nazionali frangiati d’oro.
Con il Decreto Presidente della Repubblica 8 gennaio 1997, vennero, invece, concessi il sigillo e la bandiera.
Tale Decreto trascritto nel Registro Araldico dell’Archivio Centrale dello Stato, vol. XXIV, in data 31 gennaio 1997 e registrato nei Registri dell’Ufficio Araldico in data 5 febbraio 1997, Registro anno 1997, pag. 1, porta le seguenti blasonature:
SIGILLO: Sigillo metallico recante al centro lo stemma della città di Venezia concesso con Decreto del Presidente della Repubblica 6 novembre 1996 e nella bordatura l’iscrizione convessa Città di Venezia, posta nella parte superiore della bordatura.
BANDIERA: Drappo alto cm. 100, lungo cm 200 comprese le strisce di cui infra, di rosso, seminato di fiamme d’oro, con la bordatura di rosso, orlata da filetti d’oro interni ed esterni incrociantisi negli angoli e ornata da ricami d’oro, caricata da otto quadretti di rosso, posti tre in alto, tre in basso, due nei fianchi, recanti i seguenti emblemi: in alto verso l’asta, l’arcangelo Gabriele, centralmente la Sacra Colomba, attigua alle strisce, la Beata Vergine Annunziata; in basso verso l’asta, il simbolo di San Matteo Evangelista, centralmente la Beata Vergine con il divin Figlio, attiguo alle strisce, il simbolo di San Luca Evangelista; nei fianchi, verso l’asta, il simbolo di San Marco Evangelista: attiguo alle strisce, il simbolo di San Giovanni Evangelista; tutti i detti simboli e le dette figure al naturale.
Il drappo sarà caricato dal leone marciano, passante, sostenuto dal ristretto recante a sinistra la fascia desinente a punta, simboleggiante il mare ondoso, sostenente a destra il monticello cimato dal castello torricellato di tre pezzi, la torre centrale sostenente il vessillo con il drappo sventolante a sinistra, il leone tenente con la zampa anteriore destra il libro aperto recante le parole nella prima facciata in quattro righe PAX TIBI MARCE, nella seconda facciata, similmente in quattro righe, EVANGELISTA MEUS: il tutto d’oro, con la scritta in lettere maiuscole romane di nero.
Il drappo sarà ornato da sei strisce orizzontali, rettangolari, di rosso, ornate da ricami d’oro e centralmente dalla rotella d’azzurro, caricata centralmente dalla sfera armillare d’oro. Le strisce saranno lunghe circa la metà dell’intero drappo. L’asta verticale sarà ricoperta di velluto di rosso, con bullette dorate poste a spirale, e sarà cimata dalla sfera armillare d’oro. 50)[/vc_column_text][/vc_tta_section][vc_tta_section title=”Sezione 18″ tab_id=”1459169139340-099db1ff-4209″][vc_column_text]Annotiamo, infine, che avendo ricevuto l’incarico dalla Segreteria Generale del Consiglio Regionale del Veneto di produrre l’Introduzione al volume: Consiglio Regionale del Veneto, Il Veneto, stemma per stemma, Firenze 2000, abbiamo avuta la possibilità di controllare quanti leoni marciani figurassero caricati in stemmi comunali, ovviamente in varie positure e smalti ed assieme ad altre figure araldiche.
Ne è sortito così che in Provincia di Belluno il nostro leone marciano figura caricato negli scudi dei Comuni di Arsiè, Lorenzago di Cadore e Soverzene; in Provincia di Padova negli scudi dei Comuni di Cervarese Santa Croce, Montagnana, Sant’Urbano e Veggiano; in Provincia di Rovigo negli scudi dei Comuni di Rovigo, Canda, Fiesso Umbertiano, Giacciano con Baruchella, Lendinara e Polesella; in Provincia di Treviso negli scudi dei Comuni di Caerano San Marco, Castelfranco Veneto, Crespano del Grappa, Giavera del Montello, Monastier e Riese Pio X ed infine in Provincia di Vicenza negli scudi dei Comuni di Cismon del Grappa e Noventa Vicentina.
Ricordiamo, altresì, che gli antichi stemmi del Comune di Cologna Veneta, nel veronese, figurano sormontati da un leone marciano rivoltato ed hanno per tenenti i protettori della Comunità, i Santi Felice e Fortunato martiri, raffigurati a cavallo.
Evidenziamo, per ultimo, che il leone marciano risulta caricato anche in stemmi comunali di altre Province d’Italia, come nel caso dei Comuni di Calliano e di Transacqua nel trentino.
1) G. De Camelis, Rivista Amministrativa, LXXVII, pag. 236.
2) Tribunale di Milano, sentenza del 1 marzo 1926.
3)) A. P. Torri, Gli stemmi e i gonfaloni delle Provincie e dei Comuni italiani, Firenze 1963, pag.18.
4) O. Neubecker, Araldica, origini, simboli e significato, Verona 1980, pag. 50.
5) A. C. Fox – Davies, Insegne Araldiche, Ed. Orsa Maggiore, Torriana (Fo) 1992, pag. 3.
6) L. de Làszloczky, L’evoluzione dello stemma di Stato dell’Italia unita, “Rassegna degli Archivi di Stato”, anno XLIX – n. 2, Roma, maggio / agosto 1989, p. 326.
7) Per un più approfondito esame sull’argomento: cfr. M. Serio, I due concorsi per l’emblema della Repubblica, “La nascita della Repubblica, mostra documentaria”, a cura dell’Archivio Centrale dello Stato, Roma 1987, pp. 344 – 352.
8) Ibidem.
9) Ibidem.
10) L. de Làszloczky, L’evoluzione dello stemma di Stato dell’Italia unita, cit., p. 326.
11) cfr. M. Serio, I due concorsi per l’emblema della Repubblica, cit., pp. 344 – 352.
12) “Il Presidente della Repubblica:
Visto l’art. 4 del Decreto Legge Luogotenenziale 25 giugno 1944, n. 151, con le modificazioni ad esso apportate dell’art. 3, comma primo, del Decreto Legislativo Luogotenenziale 16 marzo 1946, n. 98;
Viste le disposizioni transitorie I e XV della Costituzione;
Visto l’art. 87, comma quinto della Costituzione;
Sulla proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri, di concerto con il Ministro per la Grazia e Giustizia;
PROMULGA
il seguente Decreto Legislativo, approvato dal Consiglio dei Ministri con deliberazione dell’8 aprile 1948;
Articolo 1
Art. 1. L’emblema dello Stato, approvato dall’Assemblea Costituente con deliberazione del 31 gennaio 1948, è composto di una stella a cinque raggi di bianco, bordata di rosso, accollata agli assi di una ruota di acciaio dentata, tra due rami di olivo e di quercia, legati da un nastro di rosso, con la scritta di bianco in carattere capitale ‘Repubblica Italiana’. La foggia dell’emblema è effigiata nelle tavole unite al presente Decreto e firmate dal Presidente del Consiglio dei Ministri.
Articolo 2
Art. 2. Il nuovo emblema dello Stato sostituisce quelli attuali in tutti gli usi previsti dalle vigenti disposizioni.
Articolo 3
Art. 3. Gli stemmi ed i sigilli attualmente in uso verranno gradatamente sostituiti in conformità degli articoli precedenti.
Resta fermo il disposto dell’art. 7, ultimo comma, del Decreto Legislativo Presidenziale 19 giugno 1946, n. 1.
Articolo 4
Art. 4. Con decreto del Ministro per la Grazia e Giustizia sarà stabilita la data dopo la quale i notai non potranno più servirsi del sigillo attualmente in uso.
Articolo 5
Art. 5. Il presente decreto entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella ‘Gazzetta Ufficiale’ della Repubblica”.
(Decreto Legislativo 5 maggio 1948, n. 535, in supplemento Gazzetta Ufficiale, 28 maggio 1948, n. 122. Foggia ed uso dell’emblema dello Stato).
13) Memoriale per la Consulta Araldica, I, Roma 1873, p. 32.
14) L. de Làszloczky, L’evoluzione dello stemma di Stato dell’Italia unita, cit., p. 306.
15) A. Pezzana, Il Sigillo dello Stato nelle vicende costituzionali del Regno d’Italia, “Il Consiglio di Stato, Rassegna di Giurisprudenza e Dottrina”, Anno XLII, n. 1, Gennaio 1991, p. 195.
16) L. de Làszloczky, L’evoluzione dello stemma di Stato dell’Italia unita, cit., p. 308.
17) Ibidem, p. 310.
18) Ibidem.
19) “Nell’anno 1871 gli alamari dei carabinieri si arricchiscono di un simbolo, che è il simbolo delle forze armate nazionali: le ‘stellette’. Il decreto istitutivo porta la data del 13 dicembre 1871: ‘Sulla proposta dei ministri della Guerra e della Marina – dice il decreto – tutte le persone soggette alla giurisdizione militare porteranno come segno caratteristico della divisa militare, le stelle a cinque punte sul bavero dell’abito della rispettiva divisa’. La successiva istruzione del 4 gennaio 1872 stabilisce tra l’altro che ‘le stellette saranno ricamate in oro per gli uffiziali generali, in argento per gli uffiziali ed assimilati al grado di uffiziali superiori ed inferiori, in lana o cotone bianco per la truppa’. ‘Esse saranno foggiate – continua l’istruzione – in modo che le punte seguano i vertici di un pentagono iscritto in un circolo di 21 mm di diametro, ed i rientranti vertici di un pentagono iscritto in un circolo di 16 mm di diametro. Gli uffiziali ed assimilati a grado di uffiziale a luogo di stellette in ricamo potranno fare uso di stellette di metallo argento (o dorato se uffiziali generali), e fatte in modo da poterle levare e rimettere, purché abbiano le dimensioni più sopra indicare’. L’adozione delle stellette diventa obbligatoria a decorrere dal 1° aprile 1872 per gli uffiziali e dal 1° luglio per la truppa. ‘Per gli uffiziali dei carabinieri – precisava una nota del 28 gennaio 1872 – il centro di ogni stelletta, sempre rimanendo sulla perpendicolare innalzata sulla cucitura della goletta a 25 mm dal gangherino, dovrà trovare nel vuoto dell’alamaro per l’abito di piccola montura e fra i due alamari nell’abito di grande montura. Le stellette dovranno pure essere collocate sui baveri dei mantelli degli uffiziali dei carabinieri reali. Perciò il 1° aprile 1872 saranno tolti per far posto alle stellette, gli speciali distintivi di cui erano ornati i baveri dei cappotti-soprabito di antico modello degli uffiziali dello stato maggiore, del genio e dei granatieri’. Fin qui il decreto e le successive istruzioni. Il divieto di fare uso delle stellette da parte dei non militari viene sancito con decreto del 1907, n. 556”. (G. Maiocchi, CARABINIERI due secoli di storia italiana, Milano 1980, p. 304).
20) O. Bosio, L’Araldica dell’Esercito, Stato Maggiore Esercito, Ufficio Storico, Roma 1985, p. 67.
21) J. Chevalier-A. Gheerbrant, Dizionario dei Simboli, Milano 1994, p. 427, voce Stella.
22) G. Gamberini, (a cura di), Gli emblemi araldici della Massoneria di rito scozzese antico ed accettato, Firenze 1988, pp. 16, 20, 22, 24, 32, 38, 42, 46, 52, 56, 62.
23) A.C. Fox-Davies, A complete guide to Heraldry, London 1993, voce Mulet, pp. 146, 295, 488, 515, voce Stars, pp. 11, 295.
24) “The use of the hexagram as an alchemical symbol denoting the harmony between the antagonistic elements of water and fire became current in the later 17th century, but this had no influence in Jewish circles. Many alchemists, too, began calling in the shield of David (traceable since 1724). But another symbolism sprang up in Kabbalistic circles, where the ‘shield of David’ became the ‘shield of the son of David’, the Messiah”. (Encyclopaedia Judaica, Gerusalemme 1971, vol. 11, p. 696, voce Magen David).
25) P. Guelfi Camajani, Dizionario Araldico, Milano 1940, pp. 521-522, voce Stella.
26) L. de Làszloczky, L’evoluzione dello stemma di Stato dell’Italia unita, cit., p. 329.
27) Ibidem, p. 327.
28) P. Tournon, Note sulla Consulta araldica e sull’Ufficio araldico, “Rassegna degli Archivi di Stato”, anno XLIX – n. 2, Roma, maggio / agosto 1989, p. 434.
29) G.C. Bascapè – M. Del Piazzo, con la collaborazione di L. Borgia, Insegne e Simboli, Araldica pubblica e privata medioevale e moderna, Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, Roma 1983, p. 121.
30) Per un più approfondito esame sull’argomento, si veda: cfr. “Corriere della Sera”, 13 novembre 1987, Stemma della repubblica che delusione – Bocciati stivali, vele e omini tricolore; “Il Giornale”, 13 novembre 1987, Quei bozzetti valgono proprio poco – Lo ‘Stellone’ per ora non si tocca.
31) G. Galuppini – F.Gay, Insegne, Bandiere distintive e Stemmi della Marina in Italia, “Rivista Marittima”, n. 4, aprile 1992, inserto, p.51.
32) Ibidem, p. 57.
33) Ibidem, p. 57-58.
34) “Il Presidente della Repubblica
Visti gli articoli 87, primo comma, e 95, primo comma, della Costituzione:
Sulla proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri, di concerto con il Ministro della Difesa
DECRETA
“L’insegna di comando del Presidente della Repubblica è costituita da uno stendardo di colore azzurro di foggia quadrata, con al centro l’emblema dello Stato in oro, conforme al modello allegato.
Con suo Decreto il Presidente del Consiglio dei Ministri impartisce le conseguenti direttive alle Amministrazioni dello Stato e alle Rappresentanze Diplomatiche all’estero.
Restano ferme le disposizioni del ‘Regolamento sul Servizio Territoriale e di Presidio – Ed. Maggio 1973’ per l’uso dello Stendardo Presidenziale presso le Forze Armate”.
Roma, addì 29 Giugno 1992.
Oscar Luigi SCALFARO”
(Decreto Presidente della Repubblica, 29 Giugno 1992)
35) D.P.R. 9 ottobre 2000, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 241 del 14 ottobre 2000.
36) Ibidem.
37) D.P.R. 17 maggio 2001, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 117 del 22 maggio 2001.
38) Ibidem
. 39) G. Galuppini – F.Gay, Insegne, Bandiere distintive e Stemmi della Marina in Italia, cit., p. 28.
40) Ibidem.
41) Giorgio Aldrighetti, nota del 13 aprile 1995, prot. reg.le n. 20643, e note successive indirizzate al sig. Presidente della Giunta Regionale del Veneto, Venezia.
42) Raccolta per ordine cronologico di tutti gli atti, decreti, nomine, ecc. del Governo Provvisorio della Repubblica Veneta, Venezia 1848, to. I. p, I, p. 176.
43) Atti del Consiglio comunale di Venezia, anno 1879, cit., p. 519. 44) Ibidem, p. 518.
45) Ibidem, p. 519.
46) B. Cecchetti, Gli stendardi della piazza di S. Marco nel 1600, e la bandiera del Comune di Venezia nel 1886 in “Archivio Veneto”, anno XVI, to. XXXI, p. 1, Venezia 1886, pp. 283-284.
47) Ricciotti Bratti, Bandiere ed emblemi veneziani, Venezia 1914, p. 14.
48) Archivio Storico Comunale di Venezia.
49) Giorgio Aldrighetti, nota del 5 agosto 1993 e nota del 5 agosto 1994 indirizzate al comune di Venezia.
50) G. Aldrighetti – M. De Biasi, Il Gonfalone di San Marco, Venezia 1998.
[/vc_column_text][/vc_tta_section][/vc_tta_pageable][/vc_column][/vc_row][vc_row][vc_column][vc_column_text]I bozzetti araldici dello Stemma e Gonfalone di Chioggia concessi con D. P. R. 3.3.’88 sono di
Giorgio Boscolo Femek
I bozzetti araldici degli emblemi della Città di Venezia concessi con D. P. R. 26.11.’96 e
8.1.’97, delle Opere Pie d’Onigo, della Provincia di Venezia concessi con D. P. R. 15.4.’96 e 11.1.’02,
della bandiera di Chioggia concessa con D. P. R. 24.3.’00 sono di
Sandro Nordio [/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]